Milano Film Festival

1 Ottobre 2011

Francesco Mattana

Il Milano film festival, lodevolissima rassegna che va avanti ormai da sedici anni, ha una particolarità positiva: è un festival dove il pubblico giovanile è in netta maggioranza. Risultato commendevole, tenendo conto che la formazione, l’educazione civile e sentimentale dei giovani passa anche attraverso il cinema. Quando poi il cinema si incontra col teatralissimo Mistero buffo di Dario Fo, allora vale davvero la pena di stenderci sopra qualche riga per il nostro giornale. Il rapporto fra cinema e teatro è sempre stato un misto di diffidenza, o al più di tolleranza reciproca. Lo stesso Fo, che da sessant’anni spopola in tutte le piazze teatrali, col cinema ha sempre avuto un rapporto complicato. Qualcuno di buona memoria  forse ricorda Lo svitato, film degli anni 50 in cui Fo cercava di proporsi come un Tati italiano. Il risultato però fu così disastroso che una sera, incontrandosi con Tati, finirono col piangersi l’uno sulla spalla dell’altro, lamentando l’incomprensione dei connazionali. Sono passati decenni di allora, e Fo ora è un 85enne in splendida forma, a cui la vita ha dato anche la soddisfazione di un Nobel per la letteratura. Mancava però una ciliegina, in questa esistenza costellata di onori: proporre il Mistero buffo in tridimensione, forse, è il modo più giusto per risarcire Fo dalle amarezze che gli ha dato il cinema. Ed è un modo per lanciare la sua arte definitivamente nel terzo millennio. A dirla tutta, i monologhi del Mistero buffo mantengono tutta la loro freschezza anche a occhio nudo, senza la necessità di protesi tecnologiche. Però, l’idea di proporlo in una veste così innovativa ha un valore simbolico molto forte: significa che il testo è vivo, elastico, eternamente disponibile a farsi smontare e rimontare, a seconda dell’epoca storica in cui viene rappresentato. Il successo di Pina, documentario che Wim Wenders ha dedicato alla grande Pina Bausch, ha spinto Felice Cappa (il regista di questa versione 3D) a lanciarsi in questa sfida. E’ una sfida, intendiamoci, un pungolo contro questo grado zero della cultura a cui ci condannano i talk show. I grammelot di Fo sono uno schiaffo al becerume di questa cultura pubblicitaria, sono un invito a prestare la nostra attenzione alla cultura popolare del Medioevo, a un linguaggio apparentemente incomprensibile, ma che la mimica di Fo riesce a rendere intellegibilissimo, e godibile. Sono quarant’anni che Dario e Franca propongono questa loro personale rilettura delle storie della Bibbia; sono quarant’anni che ridiamo del tono dissacrante con cui Fo smitizza episodi sacri come il miracolo delle nozze di Cana, o la resurrezione di Lazzaro. Ecco, vedere che quella sera del 13 settembre, all’Anteo di Milano, una nutrita pattuglia di giovani scopriva questi monologhi, e rideva con l’entusiasmo di chi per la prima volta si trova davanti a una rivelazione comica, è una vera soddisfazione. Fa piacere anche a noi sardi, perché con Fo abbiamo in sospeso un conto poco edificante: quella notte del 1973 a Sassari, in cui venne tratto in arresto perché si era opposto al tentativo della polizia di bloccare lo spettacolo ‘Guerra di popolo in Cile’, è una macchia difficile da cancellare. Per fortuna poi i tempi sono cambiati, e difatti tre anni fa lo abbiamo accolto con tutti gli onori al teatro di Sinnai (teatro gestito dal compianto fratello di Dario, Fulvio).  Risolta pure la partita con la Sardegna, al vecchio commediografo non restava che questo sassolino del cinema, da levarsi dalla scarpa. Era presente alla serata, e ha mostrato, nella chiacchierata finale, una discreta (ma non totale) partecipazione emotiva verso questa nuova tecnologia. Anche Eduardo De Filippo, il suo grande amico Eduardo, aveva capito che l’unico modo per conservare un ricordo eterno della sua arte era scendere a patti con la televisione, proponendo per la Rai TV un ciclo di sue commedie. Fo deve aver pensato la stessa cosa, mentre si girava il filmato, nella cornice del Politecnico di Milano: il futuro è fatto di protesi elettroniche, e gli spettatori giovani esigono l’interattività: non si accontentano più di osservare l’artista dal palco, ma vogliono starci dentro quel palco. Se sia un male o sia un bene, questo lo si vedrà col tempo. Noi del Manifesto sardo, magari con un pizzico di gusto retrò antimodernista, riteniamo che uno spettacolo, se è fatto bene, sia godibilissimo anche nella tradizionale bidimensione. E anche Fo, sotto sotto, la pensava come noi, mentre indossava quegli scomodissimi occhialoni amaranto, per vedere il film in sala. Però, essendo un uomo di esperienza, sa benissimo che nella vita bisogna anche scendere a compromessi. E allora, se questo benedetto 3D è il filtro che permette alle nuove generazioni di apprezzare il genio del Nobel, ben venga il 3D. E poi c’è spazio per accontentare tutti: dal momento che Fo ha tutta l’aria di voler campare magnificamente fino a 150 anni, vedrete che le occasioni per godercelo a teatro, e rigorosamente in bidimensione, non mancheranno di certo.

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