Mobbing sul lavoro: le donne vittime, anche quando il carnefice è un’altra donna
24 Giugno 2025
[Antonella Carta]
In Italia, una donna su tre denuncia di aver subito pressioni psicologiche o discriminazioni sul posto di lavoro. Un fenomeno subdolo e trasversale, che non risparmia nemmeno le relazioni tra donne.
È un nemico silenzioso, difficile da dimostrare ma devastante nei suoi effetti. Il mobbing, soprattutto quando colpisce le donne in ambito lavorativo, si presenta spesso sotto forma di esclusioni sistematiche, svalutazioni continue, pressioni psicologiche e vere e proprie strategie di isolamento. Un fenomeno subdolo, spesso taciuto per paura di ritorsioni o per mancanza di strumenti adeguati a riconoscerlo e contrastarlo.
Secondo recenti studi ISTAT e dell’Osservatorio Nazionale sul Mobbing, circa il 30% delle lavoratrici italiane afferma di aver subito almeno un episodio di mobbing nel corso della propria carriera. La percentuale sale drasticamente nei settori tradizionalmente maschili e nei ruoli di responsabilità, dove l’affermazione professionale femminile è spesso vissuta come una minaccia dagli ambienti di potere consolidati.
Una violenza invisibile ma concreta. Il mobbing contro le donne si manifesta con modalità specifiche. Spesso ha radici in pregiudizi di genere e si nutre di stereotipi duri a morire: la donna non sarebbe abbastanza “autorevole”, “affidabile”, o semplicemente “adatta” a certi ruoli. Quando osa distinguersi, proporre soluzioni, o rivendicare pari dignità, diventa bersaglio. Ma il carnefice non è sempre un uomo.
Quando è una donna a colpire un’altra donna. Un aspetto ancora più spinoso – e raramente discusso – riguarda i casi di mobbing esercitato da una dirigente o responsabile donna nei confronti di colleghe subordinate. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la solidarietà femminile non è sempre un dato acquisito. In alcuni ambienti, il potere viene vissuto come un privilegio da difendere, e la presenza di altre donne può essere percepita come una minaccia.
Accade così che dirigente insicura o incapace, timorosa di essere superata da colleghe competenti o intraprendenti, adotti strategie di mobbing per mantenere la propria posizione. Isolamenti mirati, deleghe ridotte all’ osso, critiche pubbliche e sistematiche umiliazioni diventano strumenti per esercitare controllo e dissuadere qualsiasi tentativo di emergere. Una dinamica che si fonda più sulla paura che sulla leadership e che tradisce la fiducia nelle relazioni professionali tra donne.
Le dinamiche psicologiche sono complesse: si può assistere a comportamenti ipercompetitivi, tentativi di delegittimazione, esclusione da riunioni strategiche o assegnazione di compiti umilianti. In certi casi, la donna al vertice adotta per strategia – modelli maschili tossici di leadership, basati su controllo, intimidazione e sopraffazione.
Il silenzio dei vertici è una seconda forma di violenza. Ma ciò che rende tutto ancora più amaro- e inaccettabile- è l’atteggiamento dei vertici superiori, soprattutto all’ interno di grandi enti pubblici e privati. Nonostante le numerose segnalazioni, spesso dettagliate, documentate e reiterate nel tempo, queste denunce vengono ignorate, minimizzare o addirittura insabbiate. Nessuna verifica seria, nessun intervento, nessuna presa di posizione.
Un silenzio che non è solo complice, ma profondamente deludente. Perché dimostra quanto, in contesti strutturati e dotati di risorse, manchi ancora il coraggio e la volontà di tutelare realmente il benessere dei lavoratori – e in particolare delle lavoratrici.
Pochi strumenti, poca tutela. Il quadro normativo italiano riconosce il mobbing, ma non esiste una legge specifica. Le tutele sono affidate a interpretazioni giurisprudenziali e a cause civili complesse, che spesso scoraggiano le vittime dal denunciare. Le aziende, da parte loro, non sempre dispongono di strumenti adeguati a prevenire e affrontare questi casi.
Serve un cambiamento culturale e normativo. È necessario rafforzare la cultura della prevenzione e del rispetto nei luoghi di lavoro. Le imprese devono adottare codici etici, formare il personale – anche i vertici femminili – e istituire figure di riferimento indipendenti a cui potersi rivolgere. Allo stesso tempo, servono interventi normativi più chiari e incisivi che riconoscano esplicitamente il mobbing, anche nelle sue dinamiche interne allo stesso genere.
Per combattere il mobbing, è essenziale superare i tabù, anche quelli più scomodi. Riconoscere che anche una donna può essere carnefice non significa tradire la causa dell’equità, ma rafforzarla. Significa affermare che il rispetto, la dignità e il benessere sul lavoro non sono questione di genere, ma di civiltà.