Poor Things: Bella Baxter e la potenza del cinema, la rivoluzione dell’arte, i femminismi, il socialismo, il piacere, la liberazione, la libertà

2 Febbraio 2024

Un fotogramma tratto dal film

[Francesca Pili]

Con Poor Things (Povere Creature! per il mercato italiano), Yorgos Lanthimos mette in scena una storia bislacca, irriverente, sfacciata, libera e scatenata, ambientata in un mondo steampunk e in un’epoca non specificata, retrofuturista, iperbolica, con elementi ucronici, e venature ora distopiche, ora utopiche, altre volte estremamente realiste, che rimanda all’era vittoriana.

Il titolo viene e lo spunto nasce dall’omonimo romanzo di Alasdair Gray del 1992, ma c’è dentro anche un po’ del Frankenstein di Mary Shelley, un po’ del Freaks browningiano, un po’ di Metropolis di Fritz Lang, un po’ de Il mago di Oz, un po’ di Mogwli de Il libro della giungla, un po’ dell’Elephant Man di Lynch, un po’ dell’enigma di Kaspar Hauser herzogiano, un po’ di Mon Oncle di Tatì, un po’ del Giro del Mondo di Willy Fog, e Bella Baxter è, in un certo qual modo, in un certo senso, una Alice che il Paese delle meraviglie lo scopre in sé – dentro di sé – e su di sé – sul e con il suo corpo; il tutto aromatizzato con un pizzico di Tim Burton e uno di Terry Gilliam, tanto per gradire. C’è tutto questo, eppure non c’è nulla di tutto questo, perché la narrazione lanthimosiana è originalissima, personalissima, peculiare.

Il visionario cineasta greco narra questa storia con una sensibilità profondamente contemporanea e la dota di un gusto iconoclasta e sfrontato, che trova nella Bella Baxter di Emma Stone la perfetta espressione di un umano, di un femminile, che rompe tutti gli schemi.

Il risultato è una meravigliosa favola/anti-favola gotica, femminista, socialista, radicale, che esplora vari generi, senza poter essere definito, racchiuso, ingabbiato in nessuno in particolare, come, d’altronde, la sua straordinaria protagonista, e cuce perfettamente insieme, come i chirurghi del film, commedia, grottesco, dramma, horror, film di formazione, film sentimentale e film erotico, e ne fa una creatura dark ma al contempo variopinta e caleidoscopica, anche qui come la sua protagonista, riuscendo a farci ridere, commuovere, stupire, tenerci incollati allo schermo per 141 minuti di pura bellezza.

Una favola/anti-favola traboccante di vita, esattamente come la sua protagonista, che è piena di vita e bramosa di vivere, ed è sfrenata, sia nell’andamento e nelle sorprese della trama, che nella magistrale incarnazione che di lei fa una Emma Stone mai così brava, oso dire letteralmente perfetta, donandole la giusta dose di purezza, innocenza, sensualità e ardore.

La pellicola, sorretta da una forte struttura narrativa e una scrittura eccezionale, grazie anche a Tony McNamara, artefice della sceneggiatura, è un intricato viaggio attraverso le sfumature della condizione umana in generale, e della condizione della donna, delle donne, nello specifico, con il coraggio di mettere al centro del plot un personaggio col corpo di una donna e la mente candida di una bambina.

Partendo da questa audace premessa, Lanthimos purifica il personaggio di Bella da ogni condizionamento sociale.

Bella è una donna con il cervello di unə neonatə (anzi, di unə non ancora natə), impiantatogli dal dottor Godwin Baxter (God-win: un nomen omen che dice già parecchio), interpretato da uno strabiliante Willem Dafoe, dopo che, nella sua vita precedente, si è suicidata lanciandosi nel Tamigi, mentre era incinta (ed ecco da dove, o, meglio, da chi, arriva quel cervello).

Il film racconta, attraverso una parabola provocatoria, insolente, impudente, anti-moralistica, esagerata, il rifiuto delle convenzioni, delle imposizioni, dell’ipocrisia, in favore della più assoluta, radicale, libertà, di pensiero e d’azione.

Come sarebbe nascere, crescere, fare nuove esperienze, vivere, senza l’influenza di sovrastrutture sociali, libere da ogni comportamento di facciata, da ogni convenzione, da ogni comune senso del decoro, da ogni ipocrita senso della decenza borghese, da ogni educazione prevista, da ogni norma di genere e di classe precostituita, da ogni senso di colpa?

Bella è e fa esattamente questo.

È una creatura che è la metafora e la personificazione di una liberazione. E della rivoluzione.

Bella, esattamente come ogni rivoluzionaria e ogni rivoluzione, esattamente come (dovrebbe fare) l’arte, si oppone, naturalmente, istintivamente, innatamente, a tutto questo.

Lo sfida.

Bella è la sperimentazione, è la scoperta, è la conoscenza, è la speranza, è la volontà, è l’entusiasmo, è l’eccitazione, è la libertà, è la lotta contro il cinismo, contro la corruzione, contro il male del mondo.

È gioiosa, curiosa, originale, non prova nessuna vergogna, non condivide i codici e non ha alcun preconcetto sul comportamento umano.

È impossibile controllarla.

Le sue reazioni risultano sempre inaspettate.

Dove passa lei, tutto si fa visto e interiorizzato, ingerito e digerito, capito e superato.

A inizio racconto, è una tabula rasa, un foglio bianco, in cui è ancora tutto da scrivere, da scoprire, da esperire, da vivere.

Contemporaneamente madre e figlia di sé stessa (come le dice il padre-padrone-creatore diventato poi padre amorevole, meravigliato e orgoglioso, in una scena cruciale e struggente, nella quale Bella, tornata a casa, dopo il suo viaggio di scoperta e di formazione, nonostante lo sbigottimento, la rabbia e la delusione per aver saputo la verità sulla sua origine, lo ringrazia per averle dato e permesso di vivere la vita che ora sta vivendo: «Ti sei creata da sola. In tutto questo tempo, ho letto le tue lettere e ti ho vista diventare Bella Baxter»), padrona assoluta della sua sessualità, della sua vitalità e del suo destino, con gli occhi sgranati su ciò che la circonda e che, di volta in volta, scopre, viene chiamata da e sceglie ostinatamente l’avventura, la curiosità verso le persone e il mondo, contro ogni tentativo della società e degli uomini, della società degli uomini – figure paterne e figure divine (che, in questo caso, combaciano), fidanzati, amanti, mariti, amici, temporanei compagni di viaggio, clienti – di farne una bestia addomesticata, con un pensiero e degli habiti comportamentali predeterminati, previsti, pretesi.

Vuole liberarsi dalla morsa degli uomini, che possono essere certamente e assolutamente anche amati, ma solo per scelta e solamente a patto che, non soltanto accettino, ma comprendano nel profondo, e condividano, e sostengano, e supportino, davvero e in toto, fino in fondo, la sua libertà, la sua autodeterminazione, la sua indipendenza, il suo modo di pensare, di ragionare, di vedere e guardare il mondo, le sue idee, le sue scelte, i suoi desideri, che si pongano come suoi pari, che vogliano essere e siano compagni di vita, alleati, e non padri-fidanzati-amanti-padroni, possessori, burattinai.

Bella Baxter vuole conquistare e abitare come sente, come vuole, come crede, come decide, il suo posto, anzi, i suoi posti, nel mondo.

La sessualità è un punto focale del film, con tutte le implicazioni umane, sociali, filosofiche, antropologiche, politiche sull’affrancamento delle donne dagli stereotipi, dalle imposizioni, dal peso della prevaricazione maschile, dalla morale patriarcale, maschilista, paternalista dominante, dalle norme di genere precostituite e pretese.

Bella scopre sé stessa e il proprio mondo interiore, la propria sessualità e il suo potenziale e il suo potere (anche e soprattutto in termini di libertà, di autonomia, di indipendenza, di autodeterminazione), scopre il piacere (che, per l’appunto, per essere raggiunto, per essere provato, non ha necessariamente bisogno di altri, di altre, di altrə; ce lo si può regalare, ci si può soddisfare, da sole, da soli, da solə), scopre il mondo esterno, le sue meraviglie e la sua bellezza, le sue brutture e la sua bruttezza, scopre la prostituzione e, con essa, il lavoro, ma anche il sessismo e, con questo, il femminismo, i femminismi, e, più in senso lato, la consapevolezza di cosa sono e di quanto siano importanti i diritti, scopre la sofferenza, la povertà e l’ingiustizia, e con queste il socialismo («Il denaro è una malattia e pure la sua assenza»), e con tutto ciò scopre la voglia di reagire, di lottare, di – provare a – migliorarlo, il mondo («Sei in un modo, in un mondo, finché non ne scopri un altro, e un altro ancora»).

Bella interroga gli altri, le altre, lə altrə e se stessa, non si chiude, non si ritrae, non si sottrae mai, resta sempre curiosa, pure quando conosce il dolore.

La sua indipendenza si sviluppa a ogni incontro e scontro con i piaceri e con i dispiaceri del mondo e dell’esistenza umana.

Poor Things ci ricorda beffardamente, sardonicamente, che viviamo in una società, la “buona” società, nella quale, ancora, darsi «gioia con la mano» non è ben visto, mentre la «malattia del denaro» e della sua scarsità non provoca disappunto, sconcerto, scandalo pressoché in nessuno.

È c’è chi, come Harry Astley, compagno d’un tratto del viaggio di Bella, non ha il coraggio di guardare e di affrontare la verità, spesso anche dolorosa e crudele, del mondo, e si rifugia, si trincera dietro un preteso realismo che sa più che altro di cinismo, distanza, rassegnazione, resa e disimpegno.

E, invece, come il film e Bella ci dicono, ci rammentano, darsi gioia e piacere con la mano e con ogni parte di noi, da soli, da sole, da solə e a vicenda, scoprirci e scoprire il mondo, redistribuire il denaro, ridere, sperimentare, non smettere di stupirsi e di meravigliarsi, lottare, non avere paura di seguire una propria morale di libertà, sono la via, sono la strada, per la liberazione, per la rivoluzione, per la giustizia, per la felicità.

La fotografia di Robbie Ryan, che viaggia tra bianco e nero e colore, raffigura i salti temporali della storia, in particolare il dentro e il fuori, il prima e il dopo l’iniziale vita da reclusa nella casa del paterno creatore, e gli stati d’animo e le tappe di crescita della protagonista, è stupenda: il bianco e nero, che si manifesta con l’apparizione di Bella sullo schermo, e ci introduce alla sua vita pre-maturità sessuale, attraverso il suo sguardo di bambina assetata di vita, e la accompagna e ci accompagna fino alla scoperta della sessualità, come fondamentale spartiacque per la sua maturazione; da lì in poi, i colori esplodono, facendo del film un ipnotico, sublime, susseguirsi di quadri un po’ surrealisti un po’ (anzi, parecchio) d’art noveau klimtiana in movimento.

Ogni inquadratura (spesso e volentieri sferoidale, orbitale, grazie a un uso sapiente e peculiare di grandangolo e fisheye, e un utilizzo talvolta morboso ma assolutamente funzionale, preciso, calzante, dello zoom, con una funzione chiaramente narrativa, che deformano la realtà, rendendola spesso inquietante, e lo sguardo, gli sguardi, rendendoli profondi, sfasati, non normati e non canonici, originali, a volte persi, a volte taglienti, chirurgici, come dei bisturi) è una meraviglia di dopamina e bellezza in alta definizione, è equilibrata e giocata frequentemente sulla simmetria e sulle simmetrie.

Il film è girato in pellicola Kodak 35mm, con un aspect ratio 1:66, e i movimenti di macchina sono realizzati con un mix di carrelli e steadicam, a volte lenti, a volte veloci.

Le musiche e le sonorità incalzanti e a tratti disturbanti (spesso cifra di Lanthimos), composte da Jerskin Fendrix, accompagnano emozioni e conflitti interiori dei protagonisti e consentono a ritmo e narrazione di compenetrarsi e di procedere in armoniosa disarmonia e totale simbiosi.

I costumi, creati da Holly Waddington, mai mera forma, mai casuali, sono stupendi, ipnotizzanti, inebrianti. 

Le scenografie di Shona Heats e James Price, a dir poco spettacolari.

Gli effetti speciali, a cura di Gabor Kiszelly, e il trucco, ad opera di Mark Koulier, le gustosissime ciliegine sulla torta.

Tra i personaggi che animano il film, oltre a Bella-Emma Stone, e il dottor Godwin Baxter-William Defoe, come non citare Duncan Wedderburn, avvocato narcisista, egocentrico, insicuro, ipocrita, bigotto e misogino che si presenta invece come un uomo aperto, emancipato e libertario, primo amante e prima relazione interpersonale liberamente instaurata da Bella, iniziazione e varco verso il mondo esterno, extra-domestico, impersonato da un grandioso Murk Ruffalo, gigionesco, esilarante e ridicolo quanto basta da renderlo perfetto; e poi Max McCandless, interpretato dal bravo Ramy Youssef, gentile, comprensivo, timido e pacato promesso sposo di Bella e assistente di Godwin Baxter, che funge in un certo qual modo da catalizzatore dolceamaro tra i due, e che passa dall’essere remissivo al mostrarsi di carattere e temperamentoso, e si evolve da maschio che crede di dover essere geloso e possessivo, come società e norme di genere interiorizzare gli impongono, per poi diventare e scoprirsi femminista; quindi,  Martha Von Kurtzroc, un’immortale Hanna Schygulla che è un vero piacere rivedere sullo schermo, un po’ antesignana, come donna libera e consapevole di sé, di Bella, un po’ esempio e testimonianza del fatto che ogni donna, per essere e sentirsi libera ed emancipata non deve necessariamente essere identica a un’altra, proprio perché ogni donna è diversa, e la sua liberazione, la sua indipendenza e la sua realizzazione non avvengono per ognuna nello stesso modo e non passano per tutte dalla medesima strada, e, in e con tutto questo, comunque maestra e guida di Bella in una parte relativamente non così lunga ma fondamentale del suo viaggio di scoperta, di formazione e di autoaffermazione (oltre a essere, per il modo nel quale il suo personaggio è stato pensato, ideato, denominato e messo in scena, l’omaggio di Lanthimos a Reiner Werner Fassbender); c’è la Felicity di Margaret Qualley, nuova creatura, un po’ secondo tentativo, un po’ rimpiazzo di Bella, di Godwin Baxter; e ci sarebbero pure Toinette-Suzy Bemba, collega, amica, amante, compagna di lotte di Bella, grazie alla quale quest’ultima scopre la politica attiva e il sesso con un’altra donna, la spettacolare Swiney-Kathryn Hunter, tatuatissima maitrêsse del bordello in cui a un certo punto della storia lavora Bella, e, quindi, sua datrice di lavoro, e il già citato Harry Astley-Jerrod Carmichael – non posso nominarli tutti, tutte e tuttə, anche se vorrei, perché l’elenco sarebbe davvero troppo lungo –, a comporre un cast assolutamente azzeccato, impeccabile, eccellente.

Tutto ciò rende Poor Things un menù dai sapori pieni, variegati e corposi, e un viaggio indimenticabile, che non posso che consigliare vivamente di regalarsi, di assaporare, e di vivere, dentro una sala cinematografica, e, ovviamente, in lingua originale.

È il cinema dello stupore e della meraviglia, che entusiasma, diverte, commuove, fa riflettere, pungola, disturba, consola, sprona.

Ci mostra una strada, ricordandoci o insegnandoci a partire o ripartire dal desiderio, e poi dalla conoscenza, dall’esperienza, dall’autoconoscenza e dall’autocoscienza, dall’emancipazione, dall’autodeterminazione.

Ci mette di fronte ai nostri limiti ma anche e soprattutto alle nostre possibilità, e ai limiti e alle possibilità del mondo, rammentandoci che siamo molto più che povere creature.

Ci regala bellezza a profusione, bianchi e neri intensi, colori cangianti, bisturi taglienti e maniche a sbuffo.

Ed è il film più bello e convincente del suo regista, nonché quello che unisce meglio forma e contenuto.

In un campo e in un mondo in cui si abusa sin troppo spesso del termine, mi azzardo a dire che, con Poor Things, siamo realmente nei dintorni del capolavoro.

Un capolavoro contemporaneo eppure senza tempo, ricercatissimo e raffinatissimo (tanto sul piano visivo, quanto su quello testuale) e insieme pop, nel senso più pieno e nell’accezione migliore del termine (pop-olare).

1 Commento a “Poor Things: Bella Baxter e la potenza del cinema, la rivoluzione dell’arte, i femminismi, il socialismo, il piacere, la liberazione, la libertà”

  1. Marcello Pani scrive:

    Articolo interessante: il film e’ decisamente provocatorio (in senso buono) e ha stimolato dibattito. Per esempio, alcuni/e contestano che la descrizione della sessualita’ della protagonista e’ comunque narrata dal punto di vista maschile del regista e scenografo. Non sono d’accordo, e del resto l’attrice non ha certamente un ruolo passivo nella sua rappresentazione della protagonista.

    Quello che manca in questo articolo e’ l’omaggio allo scrittore del libro da cui il film e’ tratto, Alasdair Gray.
    I temi e la visione estetica del film sono molto fedeli all’opera di Gray, il quale era un artista di difficile collocazione, sperimentale, e squisitamente “multimediale”.

    L’opera di Gray era “glocale”: parlava di temi universali collocandoli in un contesto locale preciso e circostanziato, la cittaa’ di Glasgow dove Gray si era formato, viveva e lavorava. Una delle pecche del film e’ probabilmente quella di aver centrato il film a Londra, mentre il libro partiva da Glasgow e i suoi protagonisti erano riconoscibili come caratteri della citta’, certamente diversa dalla ingessata Londra vittoriana.

    https://en.wikipedia.org/wiki/Alasdair_Gray

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