Sulla libertà di stampa

2 Febbraio 2024

I funerali di due reporter palestinesi uccisi a Gaza (AP Photo/Fatima Shbair)

[Roberto Loddo]

Una delle cose che noi del manifesto sardo ripetiamo come un mantra è che i giornalisti e le giornaliste non dovrebbero limitarsi al dovere di garantire la correttezza dell’informazione.

Il dovere è anche quello di costruire il senso della solidarietà su sé stessi e su chi legge. La stampa non è un privilegio di chi costruisce l’informazione, perché può diventare uno strumento di formazione culturale e politica delle persone, dei cittadini. Perché questo elemento è importante e perché è connesso alla libertà di stampa, di opinione e di censura? È stato Luigi Pintor il primo giornalista che mi ha fatto capire questa sottile connessione.

Da quando scrivo mi è sempre capitato di ascoltare i compagni di viaggio anche della sinistra e del mondo progressista che alle grandi capacità giornalistiche di Luigi Pintor non riconoscevano e non facevano corrispondere capacità politiche di altrettanto valore. È come se, per forza di cose, il giornalismo debba, all’occorrenza, adattarsi solo ai rapporti di forza della realtà sociale e politica che ci circonda, anche con atteggiamenti subalterni.

È per questo motivo che non sono tanti i giornalisti che scrivono inchieste, analisi e riflessioni sulle scelte del passato e del presente che hanno danneggiato la Sardegna, sulle scelte che hanno permesso di devastare e compromettere la nostra Isola delle disuguaglianze. Sono sempre pochi coloro che dalla stampa raccontano i tentativi, gli esperimenti di cambiamento e trasformazione sociale in atto e che raccontano i conflitti sociali. E sono ancora di meno coloro che raccontano la cancellazione del nostro diritto alla salute, e quando lo fanno, vengono contaminati dall’amnesia del non poter non declinare i volti e i nomi di chi ha distrutto la sanità in Sardegna, compresi tutti i governanti che ci hanno imposto un modello di sviluppo fallito e velenoso.

La morte della libertà di stampa è presente anche nel silenzio della politica e dei media che nascondono le lotte per la riconversione e le bonifiche dei disastri causati dall’industria pesante e l’occupazione militare delle basi e della fabbrica di bombe Rwm. Libertà di stampa significa anche raccontare i territori e i paesi depredati e spopolati dall’economia di guerra e dalle derive neocolonialiste.

Libertà di stampa significa anche far comprendere all’opinione pubblica il senso e la ragione delle lotte a sostegno delle persone escluse ed emarginate, delle persone migranti, delle persone detenute e di tutte le persone private della libertà, non solo quando viene arrestato un politico ma soprattutto quando la malagiustizia produce l’orrore delle ingiuste detenzioni e degli errori giudiziari. Come nel caso di Beniamino Zuncheddu, assolto dopo 33 anni di carcere, una vita passata dietro le sbarre da innocente, come ha appurato la Corte d’assise di Roma al termine di un processo di revisione durato tre anni.

Quello di Beniamino Zuncheddu è l’errore giudiziario più grande della storia della giustizia italiana, il più lungo dopo i clamorosi casi di Giuseppe Gulotta, che è stato in cella da innocente per 22 anni, accusato di un duplice omicidio con cui non c’entrava nulla. Seguito da quello di Angelo Massaro, anche lui per 21 anni dietro le sbarre per un assassinio mai commesso. O dei tanti imprigionati invisibili che hanno come unica colpa quella di essere nati dalla parte sbagliata del mondo. Libertà di stampa significa anche restituire la dignità a queste persone.

Ecco perché faccio una distinzione tra libertà di stampa e libertà di spazzatura. Il lancio della spazzatura dalle prime pagine dei giornali e dai servizi dei Tg è una cosa diversa. Riportare le veline della questura, delle procure, delle maggioranze variabili di governo può anche andarmi bene se al fango lanciato emerge pure il dubbio, la lettura totale delle carte delle inchieste e non solo dei trafiletti delle intercettazioni.

Chi crea informazione dovrebbe volare alto e immaginare il suo lavoro anche come un quotidiano contributo alla costruzione di una società migliore, ma al contrario, assistiamo inermi e passivi ad una vera e propria pratica di stimolazione dello stomaco dei lettori per produrre rabbia, pietà e commozione. Una ricerca cannibale del disastro umano utile solamente a conquistare un numero sempre più alto di like, condivisioni e followers. Non ci sarebbe nulla di male se ci si limitasse a questo. È un confine che si supera spesso negli articoli di cronaca giudiziaria quando un giornalista smette di cercare, guardare, ascoltare, domandare.

E mi domando chi è che oggi fa questo lavoro? Chi è che va a seguire tutte le udienze e i dibattimenti e non si limita a parlare con i pubblici ministeri ma si sente in dovere di dare parola anche agli avvocati della difesa?

Come manifesto sardo abbiamo scelto di circoscrivere la linea editoriale del nostro quindicinale all’analisi, la ricerca e l’approfondimento dei temi emergenti della contemporaneità. Vogliamo generare dibattito e discussione su ogni forma di sopraffazione, sfruttamento e disuguaglianza esistente in Sardegna a partire dall’informazione. Come noi esistono anche giornalisti e mediattivisti che sono ben consapevoli del loro ruolo sociale di formatori dell’opinione pubblica e delle coscienze almeno in ogni organo di informazione e sarebbe anche arrivato il momento che queste coscienze non siano una specie in via d’estinzione ma emergano in maniera forte e chiara tutti i giorni della settimana e non solo nei servizi mandati in seconda serata.

Libertà di stampa significa parlare delle centinaia di giornalisti ammazzati, feriti e arrestati da Israele come ha reso pubblico il Comitato internazionale per la Protezione dei Giornalisti. Ad oggi il mondo esterno a Gaza non è in grado di ricevere una copertura mediatica affidabile della situazione, i cronisti a gaza non sono in grado di lavorare, con l’uccisione sistematica dei giornalisti, la distruzione delle sedi dei media, le interruzioni di Internet e la minaccia di censura del canale televisivo di notizie Al Jazeera, Israele ha costantemente compromesso la libera stampa nella Striscia di Gaza.

Francesca Mannocchi ha rivelato proprio a fine dicembre che i giornalisti che vogliono entrare a documentare la striscia di Gaza devono firmare un accordo con l’esercito israeliano per accettare condizioni di sicurezza e revisione del girato. Basterebbe questo per sintetizzare l’assenza di libertà di stampa ma la guerra di Israele alla Palestina arriva anche da noi, a casa nostra, nelle nostre redazioni. E non posso far finta di nulla e rimanere inerme di fronte a ciò che accade a tanti giornalisti che provano a raccontare l’orrore della guerra subendo censure, sanzioni e allontanamenti.

Non posso non parlare di ciò che è accaduto al mio amico Matteo Meloni, uno dei migliori giornalisti che si occupano dell’area del Medio Oriente a cui voglio esprimere tutta la mia vicinanza e solidarietà per un trattamento contrario all’etica, all’umanità e al senso della decenza che dovrebbe contraddistinguere ogni organo di informazione libero e non condizionato da interessi.

Matteo paga le conseguenze di aver espresso pubblicamente, come libero cittadino prima ancora che come giornalista, le proprie opinioni personali. Censurato dalla rivista per la quale ha scritto negli ultimi 5 anni e non per uno dei circa 800 articoli pubblicati, ma per quanto scritto sui suoi personali canali social.

In Europa, nel nostro Occidente democratico e liberale, non in Russia, in Cina o in Corea del Nord puoi essere escluso dal tuo lavoro se condanni la violenza dell’occupazione israeliana, puoi essere licenziato se condanni il genocidio in corso. Perché è un genocidio. E perché non ho altre parole per definire ciò che accade anche in queste ore a Gaza.

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