Processo per stupro, 1979-2009.

1 Luglio 2009

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Luisella Cossu

“Svuotare il secchio dell’ovvio”. Esordisce così Loredana Rotondo, coautrice di Processo per stupro, per spiegare le ragioni che guidarono un collettivo di donne nella realizzazione del film che nel 1979 sconvolse l’intero Paese. Il numeroso pubblico del Teatro Verdi di Sassari, che lo scorso 22 giugno ha partecipato alla proiezione del documentario, ha avuto così la straordinaria possibilità di conoscere la genesi di un film che è entrato nelle case degli italiani, e che ha gettato uno sguardo inedito sulla condizione delle donne, aprendo la strada ad una nuova e diffusa coscienza del problema.
L’idea di riprendere un processo per stupro, racconta Loredana Rotondo, nacque in seguito al convegno tenutosi a Roma nel 1978 sulla “Violenza contro le donne”. In quell’occasione il gruppo di autrici (Maria Grazia Belmonti, Anna Carini, Paola de Mortiis, Annabella Miscuglio, Loredana Rotondo e Loredana Dordi) decise di portare le telecamere nell’aula di un tribunale di provincia, quello di Latina, per riprendere un processo “nella media”, una storia qualunque, non un caso eclatante. Una scelta innovativa, questa, che non guarda alle vicende clamorose ma intende sollevare il velo della banalità e scavare in fatti di vita troppo spesso lasciati ombra, rimossi. Sul finire degli anni ’70 la televisione italiana vive una stagione di grande fermento: attingendo al caleidoscopio cinematografico, in particolare allo sguardo essenziale che rigetta la spettacolarizzazione in funzione di una consapevolezza autentica della realtà, matura sul piccolo schermo una sorta di neorealismo televisivo. Così, le telecamere delle giovani autrici si muovono, nel solco del pensiero rosselliniano, guidate dalla scelta di un punto di vista morale, decise a mostrare quanto fino ad allora si era consumato nelle aule dei palazzi di giustizia a porte chiuse. È così che la vicenda di Fiorella, vittima di violenza carnale di gruppo, e ancor più, vittima di un sistema giudiziario fortemente maschilista, farà il giro del mondo, aprendo la strada ad un cammino di presa di coscienza ancora in atto. Al centro, le donne: Fiorella in primis, emblema di tutte le vittime di violenza; la sua avvocata Tina Lagostena Bassi, figura autorevole e carismatica, implacabile nel denunciare la pratica diffusa nei tribunali – e impudicamente testimoniata dalle sconcertanti arringhe dei difensori – di trasformare la vittima in imputata; e dall’altra parte le madri, mogli e sorelle degli accusati, complici di una mentalità maschilista che assolve gli stupratori e getta la responsabilità sulla vittima. Proprio l’immagine di alcune donne contro altre donne ha portato ad una accesa discussione tra le autrici del film: lasciarle fuori dal quadro o mostrarle, evidenziando la fragilità del cosiddetto fronte delle donne? Prevale infine la scelta di mostrare integralmente i fatti, ciò che è più difficile da accettare: la mancanza, o comunque la debolezza, della solidarietà femminile, perché anche sull’indifferenza e sulla complicità di alcune donne occorre interrogarsi e riflettere. Processo per Stupro nasce negli anni di quella che Umberto Eco ha definito “paleotelevisione”, una tv didattica, fondata su un rapporto pedagogico e formativo con il pubblico. Un medium distante dalla “neotelevisone” nata nei decenni successivi e che sopravvive sui nostri teleschermi propinando solo asfittico ed anestetizzante intrattenimento. E la visione di quel documentario realizzato trent’anni fa spinge a riflettere sul ruolo dei media oggi, che nell’indifferenza di un uditorio che non è più capace di indignarsi veicolano un immaginario maschilista dove le donne sono meri oggetti di consumo, giovani corpi al silicone che sollecitano desideri patetici e alimentano il sogno di aspiranti veline. La manifestazione del 22 giugno, organizzata dalla Rete delle donne di Sassari, riparte da qui, riprendendo una sorta di dialogo fra le donne di ieri e di oggi, invitando a riflettere di nuovo non solo sullo stupro ma più ampiamente sulle donne, sulla violenza come fatto culturale, o meglio degenerazione culturale. Su questo tema si è soffermata, durante il dibattito seguito alla proiezione del documentario, l’avvocata nuorese Giovanna Angius. Se, infatti, si registrano negli ultimi trent’anni alcuni cambiamenti all’interno delle aule dei tribunali – non si parla più di stupro ma di violenza sessuale, non più violazione alla morale ma alla persona – ben pochi mutamenti sono avvenuti all’esterno, nel corpo sociale. Ancora oggi le vittime hanno difficoltà a riconoscere la violenza, soprattutto quando, come accade nella maggior parte dei casi, si consuma all’interno della famiglia. Le vittime provano un tale senso di vergogna e di colpa che le immobilizza e che, spesso, le porta a non denunciare i responsabili. L’auditorio attento del Teatro Verdi ha potuto sentire dal vivo la dura testimonianza di una donna che ha preferito non mostrare il suo volto, ma ha raccontato la sua esperienza di violenza reiterata, sottolineando il profondo senso di solitudine e isolamento vissuto. Per questo è importante che le donne facciano rete, che sostengano le vittime della violenza, e che soprattutto abbiano coscienza del problema e della sua attualità. Dagli anni ’70 ad oggi molto è cambiato, come ha riconosciuto anche Loredana Rotondo, ma è sempre più necessario mantenere acume di sguardo nei confronti della realtà, scoprendo le molteplici maschere che continuamente cercano di soffocare e tacitare verità scottanti. La visione collettiva del documentario, gli efficaci interventi che sono seguiti e l’attenzione sempre altissima di un pubblico sorprendentemente numeroso hanno messo in evidenza, soprattutto, un desiderio di partecipazione e di politica. Certo, un desiderio da intercettare ed alimentare, ma ad ogni buon conto un desiderio che dà speranza.

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