Se anche l’apocalisse viene normalizzata
27 Agosto 2025[Aldo Lotta]
“Non esistono parole” è ormai la prima frase che ci viene in mente di fronte a quanto succede in Palestina (ma, credo di poter dire, di quanto succede qui, davanti a noi, provocandoci nel tentativo di scuoterci e sollecitare almeno un urlo collettivo di sgomento).
Ma forse il termine apocalisse rende bene ciò che i giornalisti presenti a Gaza, tutti palestinesi a causa del bando israeliano all’ingresso dei corrispondenti stranieri, stanno descrivendoci e mostrandoci in diretta da molto mesi. E oggi, ancora una volta, questi giornalisti sono tra le vittime designate di un attacco doppiamente criminale, perché portato contro di loro e contro un ospedale (il Nasser Hospital a Khan yunis, nel sud della Striscia. Si è trattato di un classico attacco “in due tempi” nello stile delle più aberranti stragi di mafia o terroristiche: dopo un primo bombardamento, un secondo ha dilaniato chi stava portando aiuto ai feriti.
Al momento, si contano almeno 20 vittime, tra cui appunto i cinque giornalisti:
Hussam al-Masri (Reuters), Mohammad Salama (Al Jazeera), Mariam Abu Daqqa (freelance), Ahmed Abu Aziz and Moaz Abu Taha (AP). Essi si aggiungono ai 174, secondo AlJazeera, corrispondenti e cameraman trucidati dall’inizio di questo massacro.
Ricordiamo che oltre che svolgere senza tregua il loro lavoro in un inferno in terra, prestando i loro occhi e la loro voce onde fornirci le uniche informazioni possibili sul genocidio in corso, queste persone vivono in prima persona la quotidianità della tragedia palestinese: i continui lutti familiari, gli incessabili spostamenti, i tormenti della fame, le ferite e malattie, spesso incurabili a causa del blocco di medicine e attrezzature sanitarie essenziali. E, costituendo per la loro tenacia professionale dei testimoni scomodi del genocidio, sono tra gli obiettivi principali delle bombe e dei droni israeliani.
Non a caso in questa e altre circostanze i giornalisti sono stati uccisi in un ospedale, uno dei pochissimi ancora in grado di operare almeno in parte: gli ospedali, e i medici che giorno e notte si prodigano nel tentativo di salvare vite o mitigare sofferenze inenarrabili, sono un altro obiettivo strategico, oggetto di particolari, lugubri attenzioni da parte di Israele. L’ospedale in questione, Il Nasser, è stato miracolosamente rimesso in sesto da alcuni mesi, dopo che l’anno scorso aveva subito ingenti danni a causa dei bombardamenti ravvicinati dei tank israeliani (successivamente al ritiro dell’esercito dalla struttura gli operatori sanitari e i volontari hanno dovuto, come prima cosa, diseppellire dal cortile i cadaveri, spesso fatti a pezzi, di almeno 300 persone).
Di fronte ad avvenimenti come questo non possono non esserci delle risposte consone, reazioni che indicano che il mondo, quello occidentale, non può fare più da spettatore imperturbabile, dopo aver già assistito pressoché indifferente ad altri passaggi cruciali e oltraggiosi contro l’etica e il diritto (come l’uso della fame come arma o lo sbeffeggio e minaccia rabbiosa contro i membri delle corti internazionali).
Risposte che ripetutamente quei giornalisti, ma anche medici e operatori sanitari, hanno chiesto a gran voce a noi tutti, e in particolare (finora con scarsi risultati) alle categorie che li rappresentano nei Paesi “civili e democratici” come il nostro.
Vorrei chiudere con una riflessione molto sentita e forte di Marco Rovelli, musicista, saggista, narratore e vero intellettuale gramscianamente impegnato. È un passaggio tratto da un suo articolo sul Manifesto dal titolo: Un grido a Tajani Una posizione etica, espressa dai concetti di vergogna e di complicità
…e poi una vergogna etica. Quella che chiama alla responsabilità del legame con l’altro, che ci impone di rispondere alla chiamata, all’appello che viene dal volto dell’altro. Quella «vergogna del mondo», come ha scritto Frédéric Gros citando Premi Levi, che accade «quando ci si vergogna per l’altro, che si tratti di un umiliato – in questo caso è in lui che sentiamo la terribile sofferenza – oppure dell’umiliatore sfacciato che ci costringe a vergognarci in sua vece, poiché lui non prova nessuna vergogna».
Ecco, è questa vergogna che manca, è questa vergogna ciò di cui abbiamo bisogno. Di essa «non c’è modo di liberarsene, checché ne dicano i manager dell’anima: la si può soltanto trasformare, dandole la forma della rabbia».