Terraferma

16 Ottobre 2011

Francesco Mattana

L’ideale sarebbe che come giornale riuscissimo ad avere gli strumenti, i fondi e le risorse umane per realizzare noi stessi un reportage da Lampedusa. Riusciremmo così, forse, a fare un po’ di ordine in tutto il bailamme di notizie confuse, spezzettate e incomplete, che proviene da quest’isola. D’altro canto, coi chiari di luna in cui sta vivendo tutta l’editoria nazionale, è difficile pensare a progetti in grande. Per fortuna ci viene in soccorso un cineasta sensibile come Emanuele Crialese, che ha avuto il talento, e il coraggio, di raccontare con Terraferma un pezzo di mondo a due passi da casa nostra.
E’ uno di quei film, Terraferma, da cui lo spettatore esce arricchito. Un po’ per il bombardamento d’immagini a cui siamo sottoposti, un po’ per il cinismo galoppante, non sono tante oggidì le pellicole che riescono a lasciare un segno in chi le guarda. Terraferma ce la fa, ed è una soddisfazione davvero vederlo correre per gli Oscar. Difficilmente arriverà a impugnare la statuetta, perché è noto che gli americani prediligono lo stereotipo dell’italiano bonaccione, ‘spaghetti, mandolino e tarantella’.
Ma non mettiamo limiti alla Provvidenza hollywoodiana, che a volte in passato ha dispensato regali inaspettati. Ad ogni modo, Oscar o non Oscar, quel che è realmente importante è la qualità indiscutibile di questo film. Il mare, questo Mediterraneo che offre spunti di racconto dai tempi di Omero, è l’unico vero protagonista del film. Gli altri, gli indigeni come i migranti, sono comprimari di questa favola sentimentale e macabra, in cui è il mare a reggere i fili dell’azione drammaturgica. 
Questo Mediterraneo dalle acque terse e dai fondali incantati, che ci procura la sindrome di Stendhal per quant’è bello, è anche il mare vigliacco che inghiotte vite umane: un panorama da mangiare con gli occhi, ma anche un dio altero e capriccioso, da cui difendersi con le unghie e con i denti. I migranti si difendono come possono, nuotando con la disperazione negli occhi, e l’energia di un paio di gambe protese alla sopravvivenza. Ma che tipo di dialogo si crea coi lampedusani? Questo è l’argomento centrale di Terraferma: l’incontro-scontro tra migranti e indigeni; la buona volontà iniziale di dialogare, seguita dalla terribile presa di coscienza di uno Stato che affossa la possibilità del dialogo, in nome di una politica che dietro i bizantinismi di facciata, nasconde semplicemente uno scarsissimo sentimento umanitario. Questo si staglia davanti ai nostri occhi di spettatori emozionati e increduli: un ‘romanzo di formazione’dei lampedusani, che passano dalla genuinità del sentimento umanitario, ai calcoli di bottega su quanto effettivamente convenga essere generosi con questi individui dalla pelle scura (non uomini, ma solo individui, perché nel dramma si arriva a un punto di frizione in cui faticano a considerarli uomini come loro).
C’era il rischio che il racconto scivolasse nella retorica del pathos, e invece ecco il talento asciutto di Crialese: poteva buttar giù una serie di sequenze cariche emotivamente (così magari faceva pure più contenti i giudici dell’Academy), e invece ha preferito la chiave dell’onestà intellettuale. Niente isterie, niente melodrammi alla Matarazzo, soltanto un racconto pulito e verosimile. Un racconto valorizzato dall’efficacia degli attori, ma soprattutto dal talento d’autore di Crialese, che volutamente rifiuta gli eccessi di pathos, per raccontare piuttosto la normalità delle reazioni dei lampedusani. Non ci sono i buoni e i cattivi in questa storia, bensì c’è una linea di mezzo fatta di slanci di generosità e necessità di compromesso; fra il cuore aperto all’ospitalità, e il cervello prudentemente più incline all’istinto di sopravvivenza.
Come biasimare le esitazioni di questi poveri diavoli, oltretutto semi-analfabeti e privi di un background culturale che li aiuti a districarsi in una situazione più grande di loro? Infatti non li biasimiamo. Osserviamo, con rabbia, il loro dramma dispiegarsi davanti ai nostri occhi. Ma non è rabbia nei loro confronti: è rabbia contro il Governo italiano che gestisce con immaturità e pressappochismo un’emergenza umanitaria di queste proporzioni. E’ rabbia contro chi, nei secoli, ha reso l’Africa un continente così disperato. E infine, last not least, è rabbia contro noi stessi. E sì, perché dietro un buonismo di facciata che tutti quanti siamo bravi a esibire, la verità è che nessuno di noi può stabilire se saremmo in grado, in un frangente simile, di mantenere quella lucidità e controllo dei nervi che permette di mettersi contro le leggi dello Stato, e fare un po’ la parte di Antigone contro Creonte.
E proprio a questo serve un film come quello di Crialese: osservando le esitazioni, le umane esitazioni degli attori nel film, possiamo imparare a far meglio di loro. Il cammino della civiltà non è una linea retta sempre orientata allo sviluppo. Ci sono momenti, come la scena topica in cui i migranti vengono rigettati a mare a suon di bastonate, in cui la civiltà fa un triplo salto indietro. E a cosa serve il cinema, il buon cinema come quello che fa Crialese, se non a prendere coscienza che un comportamento simile è inconcepibile? Anche a intrattenere, senz’altro, e difatti Crialese è un bravissimo intrattenitore, ma soprattutto film come questo lasciano una importante lezione morale.
L’auspicio è che le scolaresche guardino in futuro questo film, ma un consiglio ai professori innanzitutto: prima di mettere ai ragazzi davanti al film, preparate bene il terreno: insegnategli prima di tutto a provare un’empatia, una compartecipazione coi sentimenti degli attori. Altrimenti finisce tutto in vacca, come quasi sempre: non solo i ragazzi non solidarizzano, ma addirittura c’è il rischio che diventino pure più intolleranti. Aiutate i ragazzi a provare un senso di ribrezzo verso il trenino dell’animatore turistico Beppe Fiorello, che invita i turisti a ballare Maracaibo mentre la morte scorre sotto i loro piedi. Aiutateli a provare un’emozione vera di fronte al primo piano sofferente, in chiaroscuro, della migrante etiope, che ringrazia dal profondo del cuore per aver avuto salva la vita. L’auspicio di Garibaldi, ‘fatta l’Italia dobbiamo fare gli italiani’, continua ad essere in parte lettera morta.
Un film come Terraferma, sicuramente, è un contributo utile alle celebrazioni dei 150 anni d’unità d’Italia.

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