Fare sinistra in Sardegna

5 Aprile 2018
[Massimo Dadea]

E’ trascorso poco più di un mese dalla più cocente sconfitta della sinistra dalla nascita della Repubblica. La sensazione, però, è che non si abbia sufficiente consapevolezza delle sue dimensioni e sopratutto delle implicazioni che essa comporta. Il 4 marzo ad essere sconfitto non è stato solo il PD ma l’intera sinistra. In Sardegna, poi, la debacle assume significati e proporzioni ancora più allarmanti, visto che da quasi cinque anni la regione è guidata dal PD. Tutto lascia pensare che, tra un anno, si interromperà la storica alternanza che ha visto il rigido susseguirsi di giunte di destra e di sinistra e verosimilmente  la Regione sarà governata dal M5S. E’ sconcertante, di fronte a tutto questo, l’afasia del PD: l’assenza di un briciolo di autocritica, di uno straccio di analisi, di proposta. L’immagine è quella di un partito che da molto tempo ha smesso di fare politica, avulso dalla realtà che lo circonda, lontano dai bisogni  della parte più debole e fragile della società sarda. Impegnato nell’ennesima disputa tra i diversi capi corrente che da anni si contendono la spartizione del potere in Sardegna, e che oggi si addossano vicendevolmente la responsabilità della sconfitta: un gruppo di notabili che si azzuffano sulla tolda del Titanic. Non sta meglio la sinistra “alla sinistra del PD”. Un alleanza elettorale che è riuscita a mettere insieme tutto il peggio della vecchia sinistra e ad occultare il nuovo che in questi anni è cresciuto all’interno dei movimenti: quello che voleva essere il nuovo è stato percepito come vecchio e ininfluente. Ricostruire la sinistra significa prima di tutto riaffermare le ragioni stesse che stanno alla base della esistenza di una moderna sinistra di governo: lotta alle disuguaglianze, giustizia sociale, la piena affermazione di diritti costituzionalmente garantiti ma troppo spesso negati (diritto al lavoro, alla salute, alla istruzione, tutela dell’ambiente e del paesaggio). Ricostruirla in Sardegna significa avere la capacità di dare risposte concrete ad alcune questioni che attanagliano la realtà sarda. Cinque anni di governo “renziano” e altrettanti di giunta regionale di centro-sinistra e, pare, forse, indipendentista, hanno lasciato una eredità pesante. La Sardegna è oggi un’isola di vecchi, di disoccupati, con un basso livello di istruzione e di conoscenza. Un alto tasso di invecchiamento, il più alto tra le regioni italiane e tra i più alti tra quelle europee; un basso indice di natalità; una disoccupazione del 17 per cento, un giovane su due è senza lavoro; un basso numero di laureati ed un alto indice di abbandono scolastico. Un territorio interessato da un processo di spopolamento che sta trasformando la “Sardegna di dentro” in una landa desolata. Un modello di sviluppo che si trascina da sessanta anni sostanzialmente immodificato: una industrializzazione imperniata sull’uso di combustibili fossili (petrolio e carbone), sulla licenza di inquinare, su un odioso ricatto che ha contrapposto diritto al lavoro e diritto alla salute, sul consumo e la rapina del territorio. La giunta regionale, in questi anni, si è posta in una condizione di sostanziale continuità con quel progetto di sviluppo. Si riparla di centrali a carbone, si insiste con gli inceneritori, il petrolio, ora il metano. Si persiste con la volontà di cementificare il suolo, in particolare le coste. Il disegno di legge urbanistica è paradigmatico: si offre la possibilità di incrementare le volumetrie degli alberghi nella fascia dei trecento metri e si consente ai grandi gruppi imprenditoriali (vedi Qatar) di costruire nuove strutture ricettive non consentite, oggi, dal Piano Paesistico Regionale. Ampie porzioni di territorio sono interessate da un inquinamento che ha avvelenato l’acqua, l’aria e il suolo, e dove gli uomini e le donne muoiono di più a causa dell’alta incidenza delle patologie tumorali e autoimmuni, e i bambini presentano gravi modificazioni del DNA. Tutto questo a fronte di una organizzazione sanitaria  tanto costosa quanto inefficiente, aggravata da una “riforma” irrazionale e cervellotica, finalizzata esclusivamente a tagliare la spesa sanitaria e con essa la qualità e l’esistenza stessa dei servizi sanitari ai cittadini: degrado dei presidi ospedalieri (ad iniziare dal Brotzu), lunghe liste d’attesa per esami diagnostici fondamentali. In una regione dove viene negato ad una parte importante di cittadini il diritto alla salute: i giovani e gli anziani rinunciano a curarsi perché non possono pagarsi il ticket. Vi è poi la questione istituzionale. Si pone la necessità di ripensare il Patto Costituzionale che lega la Sardegna allo Stato italiano. Sono in tanti a pensare che l’Autonomia Speciale sia oramai una scatola vuota, un simulacro privo di poteri. L’Autonomia è diventata uno strumento inadeguato rispetto ai bisogni di autogoverno che si agitano all’interno della società sarda. Quel Patto è stato disatteso e disconosciuto per primo da uno dei contraenti, lo Stato italiano, ma grandi sono le responsabilità della classe politica dirigente sarda che non è stata capace di utilizzare appieno le potenzialità dello Statuto. Sarebbe sbagliato continuare nella stanca riproposizione di questa Autonomia. Bisogna avere il coraggio di intraprendere strade nuove ed inesplorate, aprire un confronto  con quei movimenti che da anni, con coerenza e serietà, si battono per l’autodeterminazione e l’autogoverno. Sono queste solo alcune delle domande a cui deve saper dare una risposta una moderna sinistra di governo. Nella consapevolezza che solo un progetto politico capace di rispondere ai bisogni primari dei cittadini – in particolare gli emarginati, i più deboli e fragili, gli ultimi e gli scarti di questa società – potrà consentire alla sinistra di continuare ad avere un ruolo nel Paese e in Sardegna. Il 4 marzo è avvenuta una mutazione epocale: o la sinistra sarà capace di leggere e di interpretare questo cambiamento oppure niente sarà più come prima. Ad iniziare dalla sinistra.

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