Lontano dall’Italia

16 Maggio 2009

14.jpg

Mario Cubeddu

Sciogliamo gli ormeggi, salpiamo le ancore; diamo un’accelerata sulla pista e decolliamo; fischi la locomotiva e le ruote prendano a girare; balziamo in sella e diamo di sprone; mettiamo in spalla la bisaccia, scuotiamo la polvere dei nostri calzari. E’ tempo di lasciare l’Italia. Esageriamo ancora: immaginiamo che l’isola che un tempo, chissà, fu Atlantide non sia profondamente radicata al centro del Mediterraneo ma, come una zattera, possa slegarsi dal continente e partire per un viaggio verso l’oceano a cui ha dato il nome. Presi per incantamento vorremmo allontanarci con discrezione dalla lunga penisola e prendere il largo per respirare un’aria più pura e più libera. Perché quella che vi si respira è più inquinata delle vie della periferia napoletana quando dai muchi di spazzatura si levava un fumo denso e maleodorante. Non si ha più voglia di ribellarsi, di lottare, visto che ogni vicenda squallida produce il risultato opposto a quello che uno si aspetterebbe e l’imperatore colto sul fatto accresce tra lazzi e risa i consensi di cui gode. Pensate a cosa ha significato il XX° secolo per la Sardegna. E’ cominciato con la strage del 1915-18. Al mio paese, 2000 abitanti, 60 giovani uccisi senza ragione. Al danno si aggiunge la beffa della consacrazione degli “intrepidi sardi” che ci costringe a un destino di base preferita di arruolamento militare. E’ venuto poi il fascismo, imposto con la forza del bastone, della corruzione e della seduzione delle menti e dei cuori. Ci hanno portato a massacrare gli etiopi, ci hanno condotto a combattere gli spagnoli che difendevano la loro Repubblica, ci hanno fatto morire ancora in Africa, in Russia, nelle case bombardate di Cagliari. Alla fine della guerra è ripreso l’esodo verso le diverse parti del mondo in cerca di pane e di un destino migliore. Con la nostra fatica ci siamo conquistati lentamente condizioni che si avvicinano a quelle dell’Europa civile. Ma non ci era lecito costruire niente che fosse solido e nostro. Il destino ci era prescritto da altri. Sinché finiva la prima Repubblica e ne cominciava un’altra che ha per padrone uno che dice: sono dei vostri, affidatevi a me, chi può darvi di più? Siamo all’ultima stazione prima della fine. Quell’uomo si è insediato nel cuore dell’enclave coloniale, la costa nord-orientale, che domina in ogni senso, materiale e spirituale, la nostra vita. Domina i mezzi di comunicazione di massa, sempre più ogni parola che si pronuncia in Sardegna diventa rispettosa e timorosa del suo potere. Le forme del dominio totale man mano si manifestano. Per questo occorre una pausa di riflessione per guardarsi intorno e dentro di sé, in ciò che oggi siamo diventati. Bisogna quindi prendere per qualche tempo le distanze. Realizzando un’aspirazione di lunga durata rimasta nascosta in un angolo della mente dei Sardi, ma non solo: quella di abbandonare una famiglia soffocante per provare a vivere liberi confrontandosi con altre realtà e altri uomini. L’indipendenza impossibile dei tempi moderni si conquista nella mente e nel cuore , nelle attività culturali e nelle articolazioni della vita quotidiana. Almeno una pausa, tirare il fiato. Proviamo almeno a immaginare di poter essere altro. E’ un’aspirazione oggi molto diffusa. Anche presso quelli che un tempo avevano costretto tutti gli altri a un matrimonio per molti aspetti forzoso. Buona parte delle popolazioni più ricche e “sviluppate” d’Italia, quelle che abitano nelle regioni lungo il Po, si unirebbe volentieri con gli Stati del Nord Europa, piuttosto che continuare ad abitare con chi vive al di sotto della linea dell’Appennino. Naturalmente senza rinunciare a dominare economicamente queste regioni meridionali, utilizzandole come sbocco per le proprie merci e serbatoio di braccia a buon mercato. O per continuare a sfruttare la grande isola tirrenica come luogo di speculazione immobiliare. In Italia per decenni la critica al paese squilibrato e ingiusto scaturito dal processo unitario è stato patrimonio esclusivo degli scrittori, narratori e politici, del Mezzogiorno, mentre il Nord, che era stato il protagonista della “conquista”, difendeva i risultati ottenuti e proponeva un’immagine ottimista, quando non imperialista, della “nuova Italia”. La Sardegna aderiva agli atteggiamenti ottimistici del Nord, più che al radicalismo di un Verga, De Roberto o Lampedusa. La presunta arcaicità sarda della Deledda otteneva nel caso migliore effetti di riproposizione di tematiche eterne di colpa ed espiazione. Lo scrittore sardo, neanche Lussu, non osa alzare la voce e dire la sua sui vizi e le virtù della Nazione. Egli vuole essere ammesso soltanto a “dare una mano”, magari buttando via la sua vita. Nelle regioni del Nord al sogno scissionista fa da apparente contraltare l’esaltazione nazionalista. Un tempo tradotta in “imperialismo straccione”, oggi coniugata attraverso l’ottimismo da bocca spalancata e dentiera in vista del “qui la crisi non colpirà come altrove, in realtà è già finita, noi siamo più accorti e più bravi.” All’Italia della televisione non si sfugge, a quella in cui un Presidente del Consiglio è costretto ad andare a parlare di ragazze minorenni alla nazione. Il cittadino è costretto a seguire questi discorsi, non può evitare di sapere cose che preferirebbe assolutamente ignorare. Vorrebbe invece un’aria più pura, sentire parlare d’altro. La realtà del mondo di oggi è vasta, articolata, complessa. Ci sono continenti, paesi, popoli pieni di problemi e che allo stesso tempo fanno un cammino interessante da tanti punti di vista, economico, sociale, culturale. Anche dell’Italia sappiamo ormai ben poco. Attorno a noi, per esempio, vediamo consumarsi la crisi di interi settori produttivi. Questo comporta ansie, quando non disperazione, per migliaia di lavoratori e le loro famiglie. Non se ne può, non se ne deve parlare. Gli stessi sindacati sembrano rassegnati al fatto di essere usciti dal fuoco dell’attenzione e della simpatia generale. Come si può vivere in un paese dove il grande mondo non esiste, non sai nulla, non conosci nulla di quanto si costruisce, si soffre, si vive nelle sue varie parti? Per questo osiamo fare la modesta proposta di un distacco della mente e del cuore dall’Italia e dalle sue tristi vicende. Come fanno i giovani che si trasferiscono nelle capitali europee e lì rimangono a vivere senza rimpianti. E noi che stiamo qui dovremmo lasciar perdere, almeno per qualche giorno, non solo la televisione, ma i giornali, i libri che vengono diffusi in Italia e almeno per qualche tempo andare a vedere cosa scrivono gli altri, come interpretano, come rappresentano il mondo. Oggi è facilissimo. I migliori giornali stranieri è facilissimo trovarli in internet. Allontanandosi criticamente, i sardi sarebbero probabilmente ancora più utili all’Italia, oltre che a se stessi, nel momento in cui le dicono un arrivederci, o un addio. Perché la aiuterebbero a confrontarsi con se stessa, così come avrebbero potuto aiutarla a liberarsi dal fascismo se la Sardegna fosse insorta in armi il 28 ottobre 1922, il giorno della Marcia su Roma, per rivendicare la libertà per l’Italia e un destino diverso per sé. Qualcuno allora lo propose e non venne ascoltato.

Scrivi un commento


Ciascun commento potrà avere una lunghezza massima di 1500 battute.
Non sono ammessi commenti consecutivi.


caratteri disponibili

----------------------------------------------------------------------------------------
ALTRI ARTICOLI