Ipazia

16 Maggio 2010

piras

Natalino Piras

«È difficile che con il battage pubblicitario e la serie di dibattiti intorno al film “Agorà” di Alejandro Amenabar qualcuno non abbia almeno sentito nominare Ipazia». Così Umberto Eco nell’Espresso del 6 maggio, nella sua rubrica “La bustina di Minerva”. Mica del tutto vero quanto sostiene il professore. Della mia fascia generazionale, quindici-vent’anni dopo Eco, molti non sanno chi fu Ipazia. Altri di trenta e quarant’anni dopo di noi, ragazze e ragazzi che hanno visto il film, lo trovano oscuro, complesso e difficile. Conviene allora, come del resto Eco nella sua bustina, cercare di spiegare. Lo farò a modo mio ricorrendo inizialmente a un passaggio che è di teatro e che però contiene in nuce molto di movimento cinematografico. Nel primo decennio del V secolo, nella città di Cirene, in Libia, il segretario Dionigi vuole impedire al vescovo Sinesio di ricevere il messaggero che reca notizie da oltre i confini dell’impero. Dice Dionigi: “Inoltre l’udienza data a un messaggero berbero sarebbe giudicata un cedimento, una palese dimissione della romanità, come dicono, insopportabile a molti, e non solo tra i notabili. Neppure tutti i fratelli approverebbero”. Gli risponde più il là il vescovo: “Importante sì,[quanto tu dici] ma non quanto la vita degli uomini, non quanto la salute delle anime. A questo abbiamo badato, non al decoro delle insegne.” Trasportato il tutto all’oggi, qualche paragone lo troviamo, a proposito di cedimento, dimissioni, insegne, salute delle anime ma anche dei corpi. E qui torna il film “Agorà”, sulla passione e la forza della ragione di Ipazia, astronoma, matematica e filosofa neoplatonica del IV-V secolo, uccisa ad Alessandria d’Egitto dai monaci parabolani, seguaci del vescovo Cirillo poi canonizzato dalla Chiesa. Ipazia, figlia del filosofo Teone, era una pagana che insegnava e predicava, anche nelle strade e nelle piazze. Secondo una visione fanatica e di estrema intolleranza , Ipazia si opponeva alla fede e alla dottrina del cristianesimo diventata con l’imperatore Teodosio religione di stato. Uscito nel 2009 e portato anche a Cannes, il film di Amenabar è arrivato in Italia solo il 23 aprile scorso, merito anche di 10 mila firme di sottoscrizione e della a casa di distribuzione Mikado. Il ritardo, si dice, era dovuto a una forte opposizione del Vaticano. Non interessa qui entrare in merito a complotti, lo riporta anche Eco, reali o inesistenti. Voglio andare in altra direzione. Faccio recensione del film senza averlo visto in quanto non ancora entrato nella programmazione delle multisale di Pratosardo, la zona industriale e commerciale di Nuoro. Ho qui però davanti a me il “Libro di Ipazia” da cui ho preso il passaggio iniziale del segretario Dionigi, del vescovo Sinesio e del messaggero berbero. “Il libro di Ipazia” è un poema di Mario Luzi (anche Eco ne fa il nome, a proposito di Ipazia come martire del libero pensiero e icona del femminismo, insieme a quelli di Gibbon, Voltaire, Diderot, Nerval, Leopardi, Proust), una pregevole edizione BUR del 1978, introduzione di Geno Pampaloni e con una nota di Giancarlo Quiriconi. Avverte poi lo stesso Luzi che “Ipazia è stato realizzato con la regia di Marco Visconti negli studi della Rai di Torino ed è stato trasmesso la prima volta il 25 dicembre del 1971”. Certo una data significativa, il giorno di Natale, per mandare in onda una piece che è un continuo configgere tra fede e ragione, tra tradizione e modernità, tra consolidamento di una religione rafforzata dal sangue dei martiri e i nuovi barbari: quelli che premono al confine dell’impero romano e quelli considerati tali perché non cristiani. Ipazia che intuisce che è la terra a girare intorno al sole e non viceversa è archetipo di Copernico e Galilei, anche quello messo in teatro da Brecht. Venne uccisa, fatta a pezzi e bruciata nel 415 e il suo linciaggio, dentro una chiesa, scatenerà una furia settaria, da branco su branco, che culminerà con la distruzione della biblioteca d’Alessandria rinata sulle ceneri del fuoco che la devastò al tempo della guerra civile tra Cesare e Pompeo, cinquant’anni prima della nascita di Cristo. Sintomatico, nel segno di Ipazia, questo fuoco distruttore di libri che presagisce la fine ultima della biblioteca. Dice Eco a proposito di testimonianze e anacronismi su Ipazia ( anche “la celebrazione di Cirillo” da parte di papa Ratzinger) che qualche volta bisogna ricorrere alle enciclopedie in rete. Lo facciamo per la biblioteca di Alessandria che «venne distrutta in modo definitivo dopo la conquista islamica dell’Egitto nel 639. Nel 642 o 646, la datazione è controversa, il destino della Biblioteca di Alessandria si compì tragicamente e definitivamente. La tradizione riferisce che il secondo califfo dell’Islam Omar ibn al-Khattāb pronunciasse la famosa frase: “Se il contenuto dei libri si accorda con il Corano, noi possiamo farne a meno, dal momento che il libro di Allah è più che sufficiente. Se invece contengono qualcosa di difforme, non c’è alcun bisogno di conservarli.”. Si dice che i rotoli furono usati come combustibile per i bagni termali di Alessandria, che, secondo Eutichio, erano circa quattromila, e ci vollero sei mesi per bruciarli tutti». Nel poema di Luzi, dice Jone, promessa sposa di Sinesio, fedele discepolo di Ipazia, lacerato tra questa appartenenza, vera e propria fascinazione, e la fede cristiana: “Ebbene, parlava nell’agorà a molta gente. Parlava di Dio presente e l’ascoltavano in silenzio, con stupore, seguaci e avversari. Ma irruppe un’orda fanatica, mani e mani le s’avventarono contro, le stracciarono le vesti e le carni, la spinsero nella chiesa di Cristo, e lì la finirono. Lì agonizzò sul pavimento del tempio”. C’è qui una sfasatura dicono gli storici in quanto Sinesio cui pure si rivolge Irene muore qualche anno prima di Ipazia. Ma come non dare ragione al saggio Gregorio quando afferma che “mostri partorisce la storia” e con la profanazione del corpo di Ipazia “così finisce il sogno della ragione ellenica. Così sul pavimento di Cristo”. Cosa sia la fine di questo sogno della ragione che genera i mostri del sonno della ragione (il film di Amenabar ha ottenuto diversi premi Goya) lo spiega più avanti Irene, sorella del segretario Dionigi. “Non è la loro perfidia, è il loro fanatismo [ di Dionigi e Demetrio]” a macchinare perché il messaggero berbero non rechi notizia a Cirene. Bisogna fermarne la corsa di modo che “saranno i corvi comunque a radunarsi a banchetto”. È allora che Sinesio, con approvazione di Irene e di Gregorio, decide di andare incontro ai berberi che avanzano su Cirene. Il vescovo cristianizzato Sinesio si muove nel segno della pagana Ipazia. Come un sogno della ragione. Come in sogno ho recensito anch’io un film mai visto e mi torna in mente quando nel 1974, anno di crisi petrolifera e di domeniche a piedi, “l’Unità” e “Avanti!” scrissero nelle loro pagine di cultura e spettacolo (grandi Lino Miccichè, Ugo Casiraghi e Mino Argentieri) di “Lancillotto e Ginevra”, il film del cattolico-giansensista Robert Bresson “vergognosamente rifiutato a Cannes”. (E dire che oggi il ministro Bondi non va a Cannes per un altro film, “Draquila” di Sabina Guzzanti, scandalosamente, secondo lui, accettato). Ma la conclusione spetta a Sinesio. Nell’epilogo del “Libro di Ipazia” è Sinesio che continua a parlare per bocca del poeta nostro contemporaneo Mario Luzi.
« Non so di nessuna chirurgia del cuore
che possa metterlo a nudo, decifrarne il senso – mi dico:
la grazia, forse (penso spesso a lei,
non me ne viene molta pace) ma troppo raramente
anch’essa, e istantanea, nel controluce di un lampo.
Senonché il fuoco è presente, e questo è già tutto».
Tutto, Ipazia, tranne che conciliazione. Come questo presente richiede.

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