Pomigliano che ddice?

4 Maggio 2011

Mauro Piredda

Un po’ tutti hanno parlato e scritto di loro: economisti, politici, giornalisti, dirigenti sindacali, filosofi e persino uomini e donne dello spettacolo. E hanno fatto bene. Ma con “Pomigliano non si piega, storia di una lotta operaia scritta dai lavoratori” (recentemente presentato all’Ex-Q di Sassari) questo manipolo di assenteisti fannulloni (così definiti da Marchionne) ha deciso di mettere nero su bianco questa fantastica esperienza di protagonismo e centralità operaia a disposizione di chiunque, anche qui in Sardegna, voglia cambiare questa società. Non possiamo perciò prescindere dal ruolo della Fiat nel panorama del capitalismo italiano e dalla battaglia da cui emergeranno i futuri assetti tra capitale e lavoro.
Il banchiere Enrico Cuccia amava definire il colosso automobilistico nei confronti dell’intero sistema come il Monte Bianco circondato da collinette: e infatti se diamo uno sguardo ai dati ne abbiamo chiara conferma, con un milione di lavoratori, indotto compreso, e con il 12% del Pil nazionale. È stata così l’arroganza della Fiat, come ha sostenuto anche il sociologo Luciano Gallino, a dare un forte contributo alla ripresa della lotta di classe su larga scala, e sono stati gli operai di Pomigliano a utilizzare gli strumenti più adeguati alla battaglia. I nostri, seppur sconfitti al referendum farsa del 22 giugno del 2010, non solo hanno risposto colpo su colpo ai ricatti e alle pretese schiavizzanti del manager col maglioncino, ma hanno lottato congiunti contro i licenziamenti politici (come quello del militante comunista e dirigente Fiom Antonio Santorelli dell’Avio) e si sono riappropriati delle strutture politiche (attraverso il circolo di fabbrica del Prc) e sindacali (Fiom) andando in controtendenza con il loro stesso partito a quell’epoca afflitto dall’istituzionalismo più sfrenato e quindi ponendo il problema, tutt’ora irrisolto, della sponda politica alle lotte sindacali.
Hanno inoltre rivendicato la mobilitazione regionale dei lavoratori delle aziende campane in crisi, hanno fatto della lotta di Melfi e Mirafiori la loro lotta (come si vede dai volantini pubblicati in appendice) fino alla richiesta della convocazione di uno sciopero generale nazionale dei lavoratori del gruppo Fiat, sono andati oltre la lotta immediata per il posto di lavoro proponendo la nazionalizzazione del gruppo funzionale alla riconversione ambientale per la produzione dell’auto elettrica con cui rinnovare l’intero parco taxi del Mezzogiorno.
Senza questa resistenza e senza la sua minuziosa organizzazione non avremmo certamente avuto l’escalation di lotte che sono passate per la grande manifestazione Fiom del 16 ottobre, che si sono concretizzate in sede congressuale e non solo, per la costruzione di un orientamento alternativo a quello maggioritario e concertativo di Epifani e Camusso in Cgil, e che non sono certamente terminate con l’altro referendum farsa del 13 gennaio scorso a Mirafiori, dove determinanti sono stati i colletti bianchi nella vittoria del Si.
Questa resistenza, quindi, interessa anche noi di questo martoriato territorio, alle prese con vertenze (come quella della Vinyls) cariche di incertezze, con dibattiti piuttosto oscuri sulle riconversioni ambientali (come ad esempio la chimica verde), con lo sciopero generale del territorio indetto dalla Cgil di Sassari che, inserendosi nella data prevista per quello generale ne raddoppia le ore di mobilitazione (da quattro a otto). Se dovessimo fare proprie le parole d’ordine di questi compagni (che scorrono limpide e cariche di passione narrativa nei dieci capitoli del libro) non possiamo non fare un bilancio critico di tutte quelle condizioni politiche e sindacali che hanno obbligato la lotta del petrolchimico turritano su un versante isolato e mediatico, della sterile contrapposizione tra ragioni del lavoro e quelle dell’ambiente (ovvero quanto creatosi in seguito al riversamento di olio combustibile nel Golfo dell’Asinara), delle speranze riposte nelle istituzioni locali senza vedere il cuore del problema nella proprietà, degli accenni alle “rivolte popolari” (come fatto da Antonio Rudas, segretario provinciale della Cgil) senza coordinare le diverse lotte e senza stimolare una piattaforma rivendicativa dal basso, del ruolo dei partiti della sinistra attenti a cercare candidature di elezione in elezione.
L’azione della Fiom, che da Pomigliano in poi ha assunto una notevole centralità, rappresenta perciò una speranza nel deserto di riferimenti politici che dovrebbero rappresentare appieno le istanze dei lavoratori e delle lavoratrici di questo paese. Ma non si può delegare all’infinito a un sindacato la rappresentanza politica del mondo del lavoro. Se attorno alla Fiom e alle lotte più avanzate ad essa collegate nascerà quel partito di classe che farà piazza pulita di personalismi e frazionismi ormai egemoni a sinistra, i lavoratori di questo paese avranno un futuro. Un futuro all’insegna della tutela dei diritti e della soddisfazione dei bisogni, che per essere difesi devono essere svincolati dalle leggi del mercato e del profitto.

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