Notti padane. L’eterno fascismo italiano

16 Marzo 2012

Valeria Piasentà

Umberto Bossi: «Monti rischia la vita, il Nord lo farà fuori». ‘Il Nord’ è un’entità piuttosto vaga da definire, e materialmente non riuscirebbe ad impugnare un’arma che al contrario è cosa molto concreta. Quindi forse non ‘il Nord’ ma qualcuno del Nord potrebbe armarsi e ‘far fuori’ il primo ministro sotto suggerimento di un capo di partito. Bossi con questa frase probabilmente incorre nell’apologia di delitto o nell’istigazione a delinquere, due reati sanciti dal Codice civile italiano: perché si consente a un politico professionista di profetizzare (nella migliore delle ipotesi) la morte fisica dell’avversario? è lecito lasciargli esprimere queste idee o  andrebbe sanzionato legalmente? La frase indica una precisa mentalità e chi è in grado di pronunciarla ma anche solo di pensarla appartiene a un tipo umano definibile. A quello delle personalità con propensione alla violenza; o quantomeno a chi, in assenza di capacità di analisi e strumenti adeguati ad affrontare il confronto dialettico, foss’anche con l’arma dell’ironia, ricorre all’attacco diretto come forma di difesa e di autodifesa.
Ratzinger all’Angelus dell’11 marzo ha dichiarato che la violenza è contraria all’umanità e come tale è un’arma dell’anticristo.
Chi si professa cristiano difendendo istituzionalmente e programmaticamente le radici cristiane del nostro modello sociale occidentale, anche in sede di Parlamento europeo, dovrebbe ascoltare attentamente questo insegnamento: o si accetta la violenza come sistema di pensiero e di vita oppure no, non esiste compromesso fra chi affronta il conflitto ponendosi in rapporto dialettico e chi segue la strada dell’annientamento fisico dell’avversario, foss’anche solo preconizzandolo. Secondo la teoria del criminologo americano Lonnie Athens, la risposta violenta è una decisione e una scelta compiuta dopo un processo – spesso irreversibile – di sviluppo della personalità scandito in fasi di brutalizzazione successive.
Ma occorre distinguere fra la violenza diretta ed effettiva e la violenza ideologica.
Bossi in particolare appartiene a una categoria settoriale, quella di chi predica la violenza da una posizione di potere reale, nel suo ruolo politico-istituzionale; e di potere psicologico, essendo riconosciuto dai suoi adepti come capopopolo. Infatti, due giorni dopo le parole di Bossi, la solita folla acritica armata di bandiere e stendardi come qualsiasi altra tribù del calcio, osanna il  suo capo sotto il palco di un comizio.
Ma come si costruisce oggi una figura simbolica, per i suoi seguaci potente quanto quella dell’eroe mitico, intorno a cui cementare un rinnovato sentimento di identità? Un interessante libro di fresca edizione analizza la ‘fenomenologia’ del capo. Marco Belpoliti, in La canottiera di Bossi ed. Guanda, dimostra come per il politico della Lega l’arma vincente si trovi non tanto nell’argomentazione di concetti quanto nel linguaggio non verbale.
Il leader della Lega si presenta come un uomo qualunque perché «lo sguardo ammirato di molti non si rivolge più a persone di statura morale o culturale, a individui che si distinguono per onestà, capacità intellettuale, valori, propensione al bene comune; bensì a uomini e donne modesti, anonimi, identici all’uomo della strada. Di più, a qualcuno che è inferiore all’everyman, qualcuno che è inferiore in assoluto, al-di-sotto-di-noi. Un processo che si produce senza che, da nessuna parte, faccia capolino il senso di vergogna, un sentimento quasi scomparso nella nostra società».

In questa estetica del brutto Bossi è assolutamente contemporaneo. 
Il ‘senatùr’ comunica con tutto il suo corpo e con una immagine volutamente dimessa e stropicciata, come fanno gli amici al bar dello sport. Comunica col timbro della voce «dall’effetto incantatorio», e l’uso disinvolto che fa del microfono dal palco delle sue performance (non dal podio del politico) ricorda le sue origini di cantante popolare. Belpoliti sottolinea l’aspetto istrionico di Bossi, più vicino a quello di una star del rock che a quello di un politico.
Dal palco incita la platea con una gestualità rafforzativa spesso volgare e violenta, assolutamente razzista e maschilista quanto omofoba – scandita da corna, pugni, dito medio alzato, gesto dell’ombrello, tutti gesti osceni e simboli fallici di potenza e di violenza – che immette direttamente nel preconscio un insieme di concetti pronti a irrompere nella realtà in qualsiasi momento.
Quel che dice è spesso ininfluente, più spesso ancora razionalmente incomprensibile, un’insieme di frasi spezzate alternate dai soliti pochi slogan identitari: ‘Padroni in casa nostra’, ‘Roma ladrona la lega non perdona’, ‘Federalismo’ e ‘Padania libera’, questi ultimi urlati e strascicati sul finale a chiamare il coro.
Perché quel che più conta non è quello che dice ma come lo dice. Più che intorno a un preciso programma politico, la tribù leghista si riconosce nell’insieme dei suoi simboli riprodotti in gadget d’ogni genere, proprio come la pubblicità di una qualsiasi azienda della provincia industrializzata; negli elementi costruiti come l’ormai onnipresente gazebo, che ricrea l’evento politico-pop in qualsiasi spazio si allestisca rifondandolo periodicamente; in una ritualità prestabilita che scandisce il calendario come le feste della cristianità, ma la forma e i ritmi sono quelli imposti dalla pubblicità televisiva e il bacino linguistico quello delle tifoserie calcistiche degli ultrà; dai graffiti stradali ‘Padania libera’ e ‘Forza Lega’ (come Forza Juve?) che, spesso nei primi anni del movimento, segnalavano dai ponti delle autostrade la presenza della Lega analogamente alle scritte ‘Duce’ a caratteri cubitali, che nel periodo mussoliniano campeggiavano agli ingressi dei paesi. 
“In questa trasformazione antropologica degli italiani, Bossi e la Lega hanno svolto il fondamentale ruolo di feedback continuo dell’abbassamento progressivo di civiltà promosso dai media anche anche per mezzo dei gesti osceni, volgari, derisori compiuti davanti alle macchine fotografiche o alle telecamere delle emittenti televisive dal leader leghista.
Il Paese è andato sempre più giù, senza quasi saperlo. Oppure no; l’ha saputo e voluto, alimentato in questo dall’atteggiamento di Bossi, in una sorta di rincorsa tra il rivelarsi – attraverso di lui – dei desideri inconsci di una parte del Nord, da un lato, e, dall’altro, il manifestarsi di un inconscio collettivo nella figura stessa del leader del Carroccio.”

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