Cambiare il sistema di proprietà

16 Settembre 2012

Mauro Piredda
Lavoro, ambiente, sovranità. Sono queste le tematiche oggi dominanti nel dibattito della sinistra sarda. Bene, sottolineo che ho appena detto una fesseria poiché è da sempre che se ne parla. Il punto, che vale anche per l’oggi, è: in che modo? Se ieri nel binomio lavoro e ambiente ci perdeva il secondo nel nome di una rinascita autonomistica, oggi ci perde essenzialmente il primo nel nome di un sovranismo dai forti tratti anti industrialisti. Si contesta ciò che è stato, la chimica pesante ma anche quella “verde”, ad esempio. Certo, partendo da giuste considerazioni, ma senza esplicitare l’alternativa, lo stracitato ma astratto “nuovo modello di sviluppo” (a meno che non lo si intenda come un ritorno alle sole pesca, agricoltura, pastorizia).
Esiste quindi un modo per porre sullo stesso piano lavoro e ambiente e farne insieme un punto di forza programmatico? Si, se diamo una definizione corretta di cosa domina, di cosa è sovrano oggi! Partiamo per esempio dal contributo di Rossana Rossanda (pubblicato sul manifesto del 31 luglio, e rilanciato sul n°127 del manifesto sardo):  «Per l’Ilva […] non c’è dilemma fra lavoro e ambiente, c’è un sistema di proprietà, accettato dalle ex sinistre, che distrugge l’uno o l’altro, o tutti e due». Ecco il binomio proprietà/sovranità da rovesciare, quindi, per evitare che ci perdano lavoro e ambiente insieme.
Ora, giacché siam sardi, decliniamo l’esempio nel territorio con Alcoa, anch’essa inquinante, e partiamo dal presupposto che essa può esistere senza il padrone ma non senza i lavoratori. Bene, che Klaus Keinfeld decida di andarsene lasciando sulla strada i lavoratori senza che a sinistra si propugni un’alternativa basata sulla semplice proposizione “la fabbrica è di chi ci lavora”, sta a certificare quanto sia interiorizzata la sacralità della proprietà privata dei mezzi di produzione. Ora, è pur vero che inizia ad affacciarsi timidamente sul dibattito la proposta della nazionalizzazione, ma c’è da dire senza mezzi termini che vedere le soluzioni solo nei nuovi acquirenti privati equivale a rinunciare ad una lotta per la sovranità, la più basilare.
Lasciamo perdere per ora (non basterebbe un dibattito di diverse ore) le analisi sulla presunta mancanza di coscienza di classe da parte dei lavoratori che, occorre dirlo, sono assorbiti maggiormente dalla lotta economica piuttosto che da quella politica. Una sinistra che non mette all’ordine del giorno la questione della proprietà pubblica dei mezzi di produzione e del controllo sociale sugli stessi basandosi su tale presunzione somiglia più alla volpe di Esopo che non al fattore soggettivo necessario a trasformare la società.
Nessuna sovranità, nè lavoro su questi binari. E, dal momento che inquinano, neanche ambiente. Partiamo infatti da un altro presupposto: i lavoratori di una determinata fabbrica sono avvelenati allo stesso modo e ben prima di tutti gli altri cittadini data la sovrana logica del profitto a discapito di tutte le altre necessità umane ed ambientali. Non è forse il caso di cambiare disco smettendola di vedere in loro dei soggetti passivi, quando non complici di barattare salute e ambiente con uno stipendio? Non ha molto senso, soprattutto se a sinistra non si risponde a semplici domande: “chi, come, cosa, quando, in che modo e per chi produrre?”. Si perdono i punti di riferimento, gli obiettivi e da qui a rifugiarsi (giuro, non mi viene altro termine) nel sovranismo nazionale il passo è breve.
E qui, finendo, voglio porre un’altra riflessione. Così come la proprietà privata dei mezzi di produzione è un ostacolo allo sviluppo delle forze produttive, lo stesso si deve dire dei confini degli stati nazione, dal momento che la giustificazione storica degli stessi è ormai venuta meno: gli stati nazione sono nati infatti nel periodo di ascesa del capitalismo per creare dei forti mercati interni (non è un caso, ad esempio, che il Corriere abbia riproposto qualche anno fa “The age of Capital” di Hobsbawn ribatezzandolo “L’età delle nazioni”). Il fatto che di fronte a questa crisi mondiale, che dovrebbe ricevere delle soluzioni di classe, prendano piede delle soluzioni sovraniste nazionali (non solo il democratico diritto all’autodeterminazione delle nazioni senza stato ma anche l’odioso sciovinismo degli stati esistenti) è una contraddizione dialettica della crisi del capitalismo stessa, ma alla quale bisogna dare una risposta.
E tale risposta non può non essere di classe, dal momento che non è possibile un ritorno a stati nazione separati l’un l’altro come se il mercato mondiale non esistesse, e dal momento che l’Europa, sia come è oggi (e lo si è dimostrato), sia con nuovi stati membri (Scozia, Catalogna etc…) non può essere unita su basi capitaliste. Non può cioè sciogliere le contraddizioni che la contraddistinguono. Quindi rottura si, ma non tanto dell’ordinamento giuridico esistente (fermo restando che solo i sardi possono decidere se essere sardi o italiani), quanto della sovrastruttura politica del capitalismo italiano per la sovranità di chi lavora sulla propria terra e per un’Europa dei popoli su basi socialiste. Un forte conflitto di classe nella nostra terra (in modo tale da far dire al altri “Facciamo come in Sardegna!” esattamente come noi abbiamo detto in questi mesi per la Grecia o la Spagna) sarà quindi per noi una prima tappa di un mondo nuovo. E di questo, almeno spero, dovremo esserne contenti tutti: comunistas, ambientalistas, indipendentistas…

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