Bozzetto. Una finestra (animata) sul mondo

16 Dicembre 2012
Francesco Mattana
Non ama l’appellativo di Maestro: a 74 anni compiuti, preferisce di gran lunga considerarsi un allievo. Allievo indisciplinato, pervicacemente convinto che un artista libero debba seguire una direzione ostinata e contraria. Le antenne sempre accese, per carpire i segnali del mondo circostante, e tradurli nel linguaggio dell’animazione. Bozzetto non è più un uomo: è una cifra stilistica, una garanzia di qualità narrativa. Un esempio di coerenza ideologica: illuminista prestato ai cartoni animati; tenace progressista in un ambiente, quello dell’animazione internazionale, in cui generalmente si predilige la conservazione degli schemi collaudati. La qualità è un lusso per pochi. Un lusso che Bozzetto, da oltre cinquant’anni, si può permettere.

Tutto è cominciato nella Milano della fine degli anni cinquanta. Che atmosfera si respirava?

Sicuramente più entusiasmante rispetto a ora. Un momento di rinascita, in cui era più facile cimentarsi con le novità. Quando ho cominciato con l’animazione era un mestiere che nessuno in Italia conosceva. Peraltro il merito è tutto di mio padre: se non avesse comperato una cinepresa 8 mm per se stesso, io forse a quest’ora farei l’avvocato, visto che studiavo legge.

Come è nata l’idea di utilizzare l’animazione per raccontare storie diverse da quelle ‘alla Walt Disney’?

Vidi un film d’animazione canadese in cui si parlava di sport. In quel momento lì ho scoperto la mia dimensione: raccontare con immagini semplici, stilizzate, delle storie che non erano favole alla Walt Disney. Anche se poi  Ward Kimball, un disegnatore della scuderia Disney, fu importante nella mia formazione: la sua Storia della musica, in cui raccontava la musica attraverso le ere, ispirò il mio primo film, Storia delle armi. Avevo 20 anni, ed ero l’unico italiano in concorso a Cannes.

West and soda fu il suo primo lungometraggio. Addirittura anticipò la stagione degli spaghetti western di Sergio Leone.

Sì l’idea mi era venuta prima di Sergio Leone, però lui fu più rapido: Per un pugno di dollari uscì un anno prima del mio film. Comunque il successo di Sergio Leone fu di grande aiuto: grazie a lui si cominciava a parlare di un western diverso. Il mio film nacque perché cercavo una strada per arrivare al grande pubblico. Qual’era il genere migliore per avvicinarsi alla gente? Il western. Tutti lo conoscevano, e tutti sapevano come andavano a finire le storie. Il western era un archetipo da cui attingere a piene mani.

Come si conciliava il suo spirito contrario al consumismo con la realizzazione dei Caroselli?

I Caroselli appartengono a un periodo storico in cui il consumismo non era presente come oggi. Tutti facevano i Caroselli, anche molti grandi registi. Non ci nascondiamo poi che la pubblicità mi forniva il denaro necessario per i lavori che mi stavano più a cuore.

Allegro non troppo è il suo capolavoro. Qual’era il clima culturale attorno a cui si sviluppò quel lungometraggio?

Il clima era quello del ‘77, un clima in cui i produttori erano più interessati alle sperimentazioni. Però, nonostante la loro buona predisposizione, il film non lo accettarono subito. Furono gli americani a capirlo per primi, e a decretarne poi il successo.

Un cartone animato che era rivolto a un pubblico adulto. Lo videro anche i bambini?

Se l’hanno visto mi spiace per loro (ride). A parte gli scherzi non ho mai pensato ai bambini come il mio pubblico di riferimento. C’è da dire però che i bambini capiscono molto più di quanto possiamo pensare noi adulti.

Gli anni ottanta sono gli anni del rampantismo, si perse un po’ la coscienza civile. Lei come ha vissuto quel periodo?

Faccio una riflessione più generale sul rapporto che ho con la politica: ho sempre lavorato così intensamente sui miei film che mi perdevo molte cose  fuori dalla finestra. Però, come artista filtravo a modo mio l’atmosfera che si respirava. I miei film, a modo loro, offrivano un punto di vista su ciò che accadeva nel mondo.

Ci parli della tecnica Flash, con cui lavora da alcuni anni.

Con la tecnica Flash ho la possibilità di creare un corto da solo, con tutti i vantaggi che presenta un lavoro in piena autonomia: mi viene un’idea, e immediatamente posso osservare i risultati di quello che ho pensato. In passato la preparazione era più lunga, c’era un processo organizzativo più complesso, con più persone da coordinare.

Il signor Rossi è la sua creatura animata più famosa. Chi sono i signor Rossi del Duemila?

Quel modello di uomo qualunquista, che si fa convincere un po’ da tutti e cambia idea a seconda delle notizie che riceve, esiste ancora. D’altra parte siamo tutti un po’ signor Rossi: io stesso, che non sono uno scienziato, cerco di farmi un’idea chiara sul mondo, ma non è facile.

Lei non è uno scienziato. Ha posto però la sua arte al servizio di un programma di divulgazione scientifica come Quark.

Sì ma la testa è di Angela, io sono solo il braccio. Ho conosciuto Angela attraverso i suoi libri di divulgazione, negli anni settanta: mi accorgevo che aveva un metodo di raccontare molto cinematografico, per immagini. L’idea di Allegro non troppo mi venne proprio meditando su un articolo di Angela, in cui proponeva un’immagine efficacissima: immaginando che la storia della Terra si sia svolta in dodici ore, l’uomo è apparso solo negli ultimi due minuti. Da lì mi è venuta l’idea di raccontare l’evoluzione col sottofondo del Bolero di Ravel: all’inizio la musica è lenta, per sottolineare la tranquillità dell’evoluzione nei millenni; a un certo momento arriva l’uomo, e nell’arco di pochissimo tempo stravolge tutto: lì la musica del Bolero diventa più incalzante.

Perché in Italia si producono pochissimi cartoni animati?

C’è da fare una riflessione generale sul carattere degli italiani: al Sud apprezzano maggiormente un discorso legato agli elementi concreti (prendiamo ad esempio Totò: la sua maschera allampanata portava alla mente dello spettatore l’idea della fame, che è un tema concretissimo). Il linguaggio astratto dei cartoni animati, soprattutto in passato, riusciva dunque meno comprensibile a metà della popolazione italiana.

Dal punto di vista del cinema d’animazione, Milano è un terreno fertile?

Si producono pochissimi lungometraggi, e il motivo è la pigrizia dei produttori. In Canada, ad esempio, il 30% dei costi per la produzione di film animati è coperto da enti statali. Oppure pensiamo agli studi avveniristici di Shangai, con corridoi lunghi duecento metri. Fare dei lungometraggi significa creare delle strutture ben organizzate come quelle dell’Estremo Oriente. A Milano, come nel resto d’Italia, non abbiamo questo genere di strutture, perché non c’è la cultura di produrre film animati a rullo continuo.

Di cosa si sta occupando al momento?

Ho un lungometraggio bello e pronto che non trova distribuzione, in cui mostro come è cambiato il mondo dagli anni Trenta a oggi: con pochi flash racconto come sono cambiate le vacanze, come è cambiato il lavoro ecc. I ragazzi del mio studio stanno concludendo una serie Tv con protagonista il Topo Tip: è un prodotto semplice semplice, senza troppe pretese, ma è quello che chiede la Rai.

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