Il mio nome è Haifa

1 Dicembre 2009

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Ecco un’altro resoconto di Alice per il Manifesto Sardo. Dal prossimo proveremo a raccontare, accanto alle cronache sui luoghi, le storie antiche di questi popoli, le loro relazioni con il Mediterraneo.

Alice Sassu

Lei, nasceva nel 1962 nel campo profughi di Jenin, città a nord della Palestina.  Anno 1948, la Nakba “la Catastrofe”. Nell’allora città palestinese di Haifa, entrarono violentemente 5.000 soldati israeliani ed evacuarono circa 80.000 palestinesi. Tra i profughi c’erano anche i genitori di Haifa che furono così costretti ad emigrare nel nord della Cisgiordania, Jenin. Haifa, a cui i genitori diedero il nome della loro terra, nasceva nel 1962 nel campo profughi di Jenin, mentre Haifa, la città, diventava Israeliana. Il tragitto che conduce da Betlemme a Jenin è lungo e dura circa quattro ore. L’unico modo per muoversi nei territori palestinesi è utilizzare o la macchina o i service, piccoli furgoncini, in verità comodi e rapidi, che possono portare circa 6 persone. Attraversando la parte centrale del territorio palestinese fino all’estremo nord, al confine con la linea verde che delimita il territorio palestinese da quello israeliano, domina l’imponenza del muro dell’Apartheid. E, intanto, il superamento di numerosi checkpoint ci ricorda l’occupazione in atto: giovani militari armati, cecchini puntati e furgoni militari, con perquisizioni e limitazione del traffico stradale, permettono ad Israele di gestire il transito nelle strade che collegano la diverse zone della Palestina. Spesso anche le strade principali vengono chiuse e non è possibile per nessuno raggiungere altre zone o città. Nel tragitto da Betlemme a Ramallah in uno dei checkpoint, i militari scrutano l’interno del veicolo e chiedono di controllare la mia macchina fotografica. Dicendo che la zona è “militare” e che non è possibile fotografarla, intimano di cancellare due foto che li ritrae e così, per evitare problemi, soprattutto agli altri compagni di viaggio palestinesi, cancello le foto e riprendiamo il viaggio. Si dice che Jenin sia una città fantasma, poca gente per strada, una città morta, la chiamano. In verità appena arriviamo ci sembra una cittadina viva, con un mercato molto frequentato e animato, ma è periodo di festa per i musulmani che festeggiano tra una settimana l’Haid, la festa del sacrificio. Siamo accolti da Nadia una ragazza di origini tunisine che lavora come coordinatrice per un progetto indirizzato a giovani del posto (Hakoura gestisce corsi di lingua, d’informatica e opera anche in ambito psicosociale con le donne della città). Nadia così ci racconta di Jenin. La città ha circa 35.700 abitanti e nel campo profughi vivono 13.000 abitanti. L’economia, prima della violenta occupazione israeliana, era prevalentemente incentrata sull’agricoltura e sulla produzione di alcuni ortaggi di buona qualità, che ora vengono coltivati nei kibbutz israeliani presenti oltre la linea verde, a pochi metri dal distretto di Jenin. Risulta che i contadini di Jenin non hanno abbastanza acqua per coltivare le loro terre, visto che questa viene gestita da Israele, favorendo così solamente le coltivazioni dei kibbutz. Il 70% della popolazione di Jenin è disoccupata, rappresentando il tasso più alto di tutta la Cisgiordania. È buio. Grazie a Nadia, riusciamo a trovare alloggio presso un casa del campo profughi di Jenin, la casa di Haifa. Tele ricamate a mano appese nei muri, comodi divani, tappeti tradizionali, del buon caffè e una tisana calda rendono confortevole la serata passata con lei. Appena giunte a casa, Haifa si mette comoda e, lavorando alla sua opera di ricamo, inizia a raccontare. È nata a Jenin ed è sposata, ma decide di andare a vivere con i genitori quando il marito muore per una malattia. Tengo la telecamera a stento per le sensazioni che provocano le sue parole sul massacro israeliano del 2002 nel campo profughi. Ci indica la finestra da dove arrivavano gli spari e il muro su cui si rifugiavano. Case distrutte dai bulldozer, bombe dall’alto, morti e bambini terrorizzati. Haifa è una donna, una donna che non ha l’appoggio economico del marito e vive a stento, cercando di racimolare qualcosa dai lavori di ricamo che produce insieme ad un’associazione di donne, con cui tiene si occupa anche dei bambini del campo. Nove mesi di carcere hanno fatto di Haifa una donna nella lista nera israeliana. Essere militante di Fatah prima degli accordi di Oslo del 1993 era illegale, ma anche se ora Israele ha “concesso” la legalità al maggiore partito dell’autorità palestinese, Haifa fa parte della lista nera, ed è quindi limitata nei suoi spostamenti. Fa freddo nella sua casa. La lunga chiacchierata è spesso interrotta o dall’arrivo di vicine di casa o dal passaggio degli anziani genitori. Ci dice che solamente chi lavora per il governo dell’autorità palestinese ha la possibilità di avere la pensione, per cui gli anziani sono sotto l’unica protezione del nucleo familiare. L’unico ospedale in città è troppo costoso. Haifa ci racconta di una sua parente (una bambina di pochi anni) che ha avuto una malattia ad un occhio e di un lungo tragitto che li ha portati a pagare 100 shekel per superare illegalmente il muro e raggiungere così l’ospedale più attrezzato. Prima di ritirarci ci chiede se i nostri paesi sono abbastanza forti, insomma se contano qualcosa a livello internazionale per risolvere i loro problemi, ma purtroppo non possiamo essere molto rassicuranti. Passiamo la notte nella sua stanza, dice che per lei non è un problema perché deve accudire i suoi genitori. La mattina, dopo una colazione a base di pane, olio e za’atar, Haifa ci porta nelle sede del centro e ci mostra un documentario sul massacro di Jenin. Dice che per capire cosa è accaduto nel 2002 è necessario vedere cosa è stato fatto, perché ora molte delle case sono state ricostruite, e dice che anche se non potremo capire l’audio, le immagini parleranno da sole. Ancora una volta ho difficoltà a tenere la telecamera in mano e mi agito. Le immagini, la distruzione, le urla, gli sguardi, la disperazione. Subito dopo ci troviamo catapultate per le strade del campo con bambini, mamme che spazzano le strade e anziani sulle loro sedie a prendere il sole. Prima di salutarci Haifa ci porta nel cimitero dove si trovano i “martiri”, tutte vittime del massacro del 2002. Vaghiamo tra le tombe, e Haifa ci racconta delle tragiche morti, mentre la voce della moschea si alza e sembra intonare una marcia funebre per quelle vittime innocenti. Per Haifa, solo il racconto, il ricordo, il non dimenticare, fa sì che la resistenza possa avere un senso, perché il suo nome è Haifa. Haifa di Jenin, non Haifa d’Israele.

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