Terre di tutti, terre di nessuno

1 Dicembre 2009

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Mario Cubeddu

Acqua e terra, elementi sacri e fondamentali, hanno ricevuto in queste ultime settimane un poco dell’attenzione che meritano. Non per rispetto e buon uso, ma per i pericoli che corrono.  La prima, per la accettazione in sede legislativa e nel senso comune che la via migliore per gestire questa risorsa sia quella della privatizzazione. Salvo, come spesso avviene in Italia,  privatizzare i guadagni e caricare i costi sulle comunità e i cittadini: ancora si attende un governo razionale e intelligente di tutto il ciclo, dalla sorgente al ritorno delle acque depurate sul terreno. Nelle bollette alle famiglie da decenni viene addebitato un costo per tutto il percorso, mentre la depurazione delle acque che escono dalle nostre case è ben lontana dall’essere compiuta in modo corretto e completo. Anche sulla terra si è focalizzata per un momento l’attenzione. L’incontro promosso dalla FAO a Roma è stato l’occasione per ricordare che la privatizzazione della terra è in Africa, in Asia e in America Latina, un processo violento capace di scuotere dalle fondamenta l’economia e la vita di popolazioni intere. Con un segno di matita su una carta e una delibera di governi corrotti milioni di ettari di terra diventano di proprietà dei governanti o di multinazionali della produzioni agricola a cui questi ultimi le vendono. Comunità di contadini e pastori sono cacciati da una terra riguardo alla quale non si erano mai posti il problema della proprietà, essendo scontato che essa dovesse servire ad alimentare gli esseri umani come alimenta gli altri esseri viventi. Dando i suoi frutti a chi li coglie  e a chi la trasforma per la produzione. E’ un tema, quello delle terre comuni e della loro chiusura, che noi sardi conosciamo bene, anche se perlopiù la politica e la cultura lo ignorano. I sardi sono ricchi, ma non lo sanno. Questa ricchezza li porterà alla rovina: guai a chi possiede ricchezze senza sapere di averle, incapace di farle fruttare. La Sardegna ha non solo vasti spazi disabitati in cui muoversi, bene prezioso in un pianeta sempre più affollato, ma la Regione e i Comuni hanno in proprietà decine di migliaia di ettari. Che sono, o potrebbero essere, proprietà di tutti. Proprietà comune, collettiva. Si tratta di un fenomeno diffuso in Sardegna come in altre parti d’Italia e del mondo. Ma, mentre in altri luoghi d’Europa le terre di proprietà collettiva sono fonte di ricchezza e sostegno all’identità civile, in Sardegna esse costituiscono un problema per l’incapacità di gestione, la difficoltà a mantenerne il carattere pubblico e la dichiarata impossibilità a renderle redditizie. Anche quando si tratta di superfici estese e produttive. E’ quel che è accaduto e accade alle comunità umane inserite nella modernità in modo traumatico e per impulso di un potere esterno. Le popolazioni locali si trovano schiacciate tra l’appropriazione da parte di poteri di conquista e lo scatenamento delle tentazioni di appropriazione subalterna a danno degli strati più deboli e indifesi. Viene imposta con la forza una proprietà privata non naturale e non necessaria, incapace di portare progresso, contrariamente a quanto si afferma.  Così sotto il sole d’agosto la nuova Giunta regionale sarda di centro-destra, con uno dei suoi primi interventi, modifica la legge regionale 12 del 1994 e permette la sclassificazione delle terre soggette ad uso civico concesse in passato dai Comuni a privati. Situazioni illegali su cui si era chiuso un occhio vengono sanate con un condono che rende privato ciò che un tempo apparteneva a tutti. Niente di nuovo in realtà. Anche in passato la Regione sarda si è dimostrata incapace di affrontare il problema delle terre pubbliche in modo organico. L’inerzia di decenni  non solo ha favorito i profittatori, ma ha determinato gravi conseguenze sociali, politiche e di ordine pubblico. Chi aveva il dovere di governare vi ha rinunciato, lasciando campo all’illegalità e all’arbitrio. Ciò che veniva violato era anzitutto il sentimento di giustizia, nei singoli e nella comunità. Le terre di uso collettivo vengono in Sardegna definite comunemente “terre civiche”, a sottolineare il fatto che esse sono gestite dai Comuni, come fossero proprietà del Consiglio Comunale e del Sindaco. E’ una cosa ben diversa parlare di “terre comuni” in cui ciascuno dei cittadini ha parte. E’ questa la condizione delle terre pubbliche nelle situazioni più avanzate, sull’Appennino tosco-emiliano o in Cadore. Tutti sono chiamati a dire la loro su un patrimonio di cui ciascuno è proprietario. La gestione non è affidata alle alterne vicende della politica amministrativa. Questa tende a oscillare in favore dei più forti e a sfuggire ogni decisione impopolare, o conflittuale. Le terre e le risorse collettive nelle situazioni migliori sono invece governate da un ente di gestione che risponde all’assemblea di tutti i cittadini. Questo fa si che essi sentano il bene come proprio,  siano gelosi custodi della sua conservazione. La proprietà collettiva ha avuto un ruolo importante per le nostre comunità, svolgendo un compito non solo economico, ma anche di rassicurazione umana e psicologica. Nessuno era mai totalmente privo di beni, poiché a tutti, in quanto parte della Comunità, spettava il godimento della sua porzione. Poteva e doveva farlo insieme agli altri. Ciò che rimane di questa realtà ha oggi l’aspetto del paradiso perduto, più che quello di una prospettiva di un futuro migliore. Eppure la sfida della costruzione di un armonico rapporto di convivenza, di lavoro in comune, di uso della terra in modo rispettoso, non può mancare in qualsiasi progetto che abbia al suo centro il valore dell’uguaglianza tra gli uomini. Chi sogna una società di uguali, chi vorrebbe fermare la morte dei nostri paesi, quei sardi sempre più numerosi che puntano all’autogoverno in una Sardegna non separata, ma più legata all’Europa , nessuno può continuare a eludere questo tema.

1 Commento a “Terre di tutti, terre di nessuno”

  1. Sebastiano Mastinu scrive:

    Uno dei miei desideri più grandi è quello di riuscire a trasmettere a mio figlio, a chi mi sta vicino, il forte legame che sento per il mio paese e per il suo territorio, per la Sardegna.
    Il valore utopico, credo, dell’uguaglianza fra gli uomini, lascia spazio ad un’estremo individualismo, che male si concilia con la solidarietà, che era la qualità che permetteva ai nostri antenati di gestire i rapporti sociali e umani della vita comunitaria. Di condividere gioie e dolori, di lavorare insieme per raggiungere determinati obbiettivi. Il riflesso più immediato di questo individualismo, è la mancanza di una gestione collettiva dei nostri beni più importanti, come l’acqua e la terra, il territorio in genere, beni, che concordo con te nel definire sacri.
    La cosa pubblica è spesso violentata, saccheggiata, offesa da persone con pochi scrupoli, che prima di tutto pensano a sfruttare il bene collettivo per i propri tornaconti personali.
    Abbiamo in tutta la Sardegna tanti esempi di occupazioni abusive di aree demaniali, anche soggette a Uso Civico, di persone che hanno sfruttato per decenni risorse comunitarie come la legna e il pascolo, che si sono imposte con la prepotenza e la violenza nelle comunità dove vivono.
    Pochi sono coscienti che una delle opportunità maggiori che noi Sardi abbiamo a disposizione è la riscrittura di certe regole, che ci consentano di proggettare il futuro della nostra terra. Piena autonomia? Indipendenza?
    Cosa fare? Intanto parliamone.

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