Il valore della cura come antidoto al razzismo di Stato

10 Novembre 2018
[Maria La Porta]

Fra i diritti fondamentali sotto attacco in questo momento nel nostro paese ma anche in altri stati europei e non, ci sono certamente quelli delle persone migranti e delle donne.

Da volontaria dell’accoglienza e da femminista ho riflettuto lungo le direttrici di queste mie due esperienze perché ritengo che oggi più che mai “il personale è politico” e che il lavoro a sostegno di chi è arrivato qui sia stata per me una preziosa occasione di “cura” nel senso femminista del termine. Prendersi cura è un atteggiamento strutturalmente relazionale. La cura presuppone il riconoscimento dell’esistenza di un altro ma implica anche una relazione asimmetrica: chi cura è in una posizione di forza, chi ha bisogno della cura è in una condizione di vulnerabilità. Durante l’attività di assistenza a uno sbarco la cura si traduce concretamente nella capacità di comunicare oltre i gesti e le parole la propria volontà di entrare in relazione con l’altro, di sostenerlo e accompagnarlo in un momento di estrema fragilità.

Chiunque abbia visto le immagini di uno sbarco sa che le operatrici e gli operatori dell’accoglienza indossano una divisa, dei guanti e una mascherina che copre loro il volto quasi per intero. In una condizione simile, la cura si manifesta nella capacità di sorridere con gli occhi a chi ci viene incontro, prendergli con delicatezza il braccio per sostenerlo se necessario, rivolgergli le prime parole di pace in terra italiana, “salam-aleikum”, e vedere i tratti del viso distendersi finalmente in un sorriso.

Questo e molto altro sono stati per me gli sbarchi fino all’ultimo, il 28 giugno 2017, quando per effetto del decreto Minniti prima e della linea Salvini poi gli sbarchi programmati a Cagliari sono cessati. Da allora non è trascorso un solo giorno senza pensare al fatto che a chi non è stato più permesso di arrivare è rimasta solo l’alternativa fra morire in mare oppure nei lager libici. In questa strategia, un passaggio cruciale è stato il rifiuto di aprire i porti italiani alla nave Acquarius di Medici Senza Frontiere lo scorso giugno.

Aquarius è rimasta per tre giorni in mare con 630 persone a bordo, tra cui 123 minori non accompagnati e 7 donne incinte, in attesa che venisse trovata una soluzione. Per via delle condizioni meteo avverse, la nave ha circumnavigato la Sardegna prima che il governo spagnolo rendesse disponibile il porto di Valencia. In questa vicenda un elemento centrale resta l’inesistenza di un provvedimento formale di chiusura dei porti: nessun atto del Ministero dei Trasporti ma un semplice tweet e i media a fare da cassa di risonanza ad una decisione indegna senza che nessuno, almeno inizialmente, si sia interrogato sulla sua liceità.

Nei giorni in cui Acquarius ha circumnavigato la Sardegna, alcuni hanno chiesto che fosse aperto il porto di Cagliari per permettere alla Protezione civile sarda di fare quello che ha sempre fatto egregiamente in questi anni: accogliere. Per farsi un’idea: a Valencia sono stati impegnati nelle operazioni sbarco dell’Acquarius circa 2500 volontari, quasi 4 per migrante. A Cagliari è stata fatta assistenza in sbarchi di oltre 1200 persone con 150 volontari che si sono alternati in turni diurni e notturni. Spiace davvero che anziché rivendicare con orgoglio questo straordinario lavoro, si sia rimasti alla finestra a guardare Acquarius passare lungo le nostre coste col suo carico di sofferenza, senza poter fare nulla.

Il secondo passaggio sul quale vorrei soffermarmi è l’attacco all’autodeterminazione delle donne da parte di questo governo che si fa ogni giorno più feroce, a partire dalla mozione leghista che dichiara  Verona “città a favore della vita” e finanzia associazioni antiabortiste. Dopo Verona, la stessa mozione è stata presentata in altre città e l’assemblea nazionale di Non una di Meno ha dichiarato lo stato di agitazione permanente. Si pensi inoltre al disegno di legge Pillon sulla riforma del diritto di famiglia, contro il quale oggi ci sarà una mobilitazione nazionale, fino ad arrivare alla vergognosa strumentalizzazione dei corpi delle donne vittime di violenza da parte del Ministro Salvini per accrescere il proprio consenso. Naturalmente l’indignazione del Ministro è rigidamente selettiva e scatta soltanto quando a delinquere è un migrante.

Questa è l’unica ragione che lo ha portato a Macerata prima, per il femminicidio di Pamela Mastropietro, e nel quartiere San Lorenzo di Roma poi, quando ha cercato di raggiungere lo stabile nel quale la giovane Desirée Mariottini è stata stuprata e uccisa ma gli è stato impedito da donne e uomini che non hanno esitato a ricacciarlo indietro. Sono dati recenti dello stesso Ministero dell’Interno a chiarire che più dell’80% degli stupri sulle donne italiane è commesso da un italiano bianco e che gli stupratori stranieri sono il 15,1%. E proprio in questo gigantesco capovolgimento di senso si colloca una sempre più evidente intersezionalità fra razzismo, sessismo e classismo, che agisce oggi come una potentissima interconnessione tra le diverse forme di dominio.

L’uso mediatico e politico di casi simili dimostra come il razzismo si riproduca anche attraverso il corpo delle donne stuprate, usato nei discorsi pubblici per affermare l’inferiorità culturale e la pericolosità dei gruppi immigrati e, parallelamente, per offuscare l’estensione del fenomeno della violenza maschile nella cultura italiana. Un episodio di violenza sessista si può trasformare rapidamente in un terreno per produrre o consolidare percezioni razziste e sessiste, nonché per promulgare leggi che non hanno niente a che vedere con il problema della violenza maschile contro le donne. Si pensi al “pacchetto sicurezza” emanato dal Ministro Amato in seguito allo stupro e al femminicidio di Giovanna Reggiani a Roma nel novembre 2007.

In questo contesto, i casi di violenza sessuale interetnica sono stati strumentalizzati come «stupri utili» ai fini della costruzione del razzismo di Stato. I gruppi femministi si sono opposti alla violenza contro le donne ma anche alle strumentalizzazioni razziste. Sostenere che lo stupro non è etnico, non ha passaporto e a commetterlo è sempre un uomo, è un gesto politico importante, di questi tempi. Ma questo non è sufficiente a modificare il senso comune modellato da anni di retoriche razziste e segregazioniste, a destra come a sinistra: l’interpretazione secondo cui una violenza sessuale commessa da uno straniero è più grave di quella di un italiano è già passata nei media ed è già in qualche modo egemonica.
Come si può reagire a tutto questo?

All’indomani del femminicidio di Giovanna Reggiani nel novembre 2007, un gruppo di donne lanciò un appello per una grande manifestazione di piazza contro la violenza maschile sulle donne. La risposta fu straordinaria: 150.000 donne arrivarono a Roma da tutta Italia per affermare con forza che la violenza non ha confini e che, nella maggioranza dei casi, l’assassino ha le chiavi di casa. Fu la più grande manifestazione femminista dai tempi di “Riprendiamoci la notte” nel 1976. Ad aprire quel corteo furono, fra le altre, le donne del campo Rom in cui viveva l’assassino di Giovanna: le stesse che con la loro testimonianza permisero agli inquirenti di ricostruire cosa avvenne in quella terribile notte di fine ottobre nei pressi della stazione di Tor di Quinto.
Unire le lotte di donne, migranti, lavoratori è la risposta perché, come scriveva Carla Lonzi, “Nessun essere umano e nessun gruppo deve definirsi o essere definito sulla base di un altro essere umano e di un altro gruppo.”

[Intervento di Maria La Porta alla conferenza Diritti costituzionali sotto sequestro organizzata da Sinistra – Autonomia – Federalismo – Ripartiamo dalle idee e dai territori nella Fondazione di Sardegna, giovedì 25 ottobre 2018]

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