Gli effetti destabilizzanti del crollo del “Muro” sulle relazioni tra gli Stati dell’Europa

2 Gennaio 2020

Henri Cartier-Bresson, Berlin wall and children’s games

[Gianfranco Sabattini]

“Tren’anni fa è crollata con il Muro di Berlino l’Europa meno disunita che storia abbia mai conosciuto”; così inizia l’Editoriale del n. 10/209 di Limes. Nella narrazione corrente, il “crollo segnalava la fine della “pace segreta” presidiata dalla Guerra fredda, che divideva l’Europa in due gruppi di Paesi (quelli occidentali e quelli orientali), eterodiretti rispettivamente da Washington e da Mosca.

Il crollo del Muro ha sicuramente segnato la fine di un’epoca buia, ma anche quella della Guerra fredda, conducendo a un cambio delle ideologie prevalenti, di qua e al di là del Muro; cambio che, a sua volta, ha dato origine alla creazione di nuovi Stati, di nuove costituzioni e, soprattutto, di nuove condizioni di libertà di decisione dei singoli Paesi.

La Guerra fredda aveva assicurato al mondo quarant’anni di pace; ma la sua fine ha avuto come conseguenza diretta e immediata la riunificazione delle due Germanie e l’accelerazione della crisi dell’Unione Sovietica, due eventi che hanno avuto una ricaduta sulle relazioni tra tutti gli Stati europei. Ironia della sorte, alla lunga pace europea seguita alla resa delle forze armate tedesche, nel 1945, e all’instabilità successiva alla riunificazione tedesca, nel 1990, con il crollo dell’URSS e del suo impero, tra il 1989 e il 1991, è seguito nel Vecchio Continente il ritorno della guerra: crisi iugoslava, crisi dei rapporti tra il nuovo Stato russo e alcune delle ex repubbliche sovietiche, fino allo scontro, in corso dal 1914, tra la Russia e l’Ucraina nel Donbas. Non è detto che i conflitti locali debbano necessariamente sfociare in una nuova guerra mondiale; è comunque prevedibile che, negli anni a venire, a seguito delle crisi, la mappa geopolitica dell’Europa sia destinata ancora a cambiare rispetto a quella attuale.

Il Muro di Berlino era la forma materiale in cui si palesava quella metaforica espressa dalla Cortina di ferro; un confine tra egli imperi postbellici dell’America e dell’Unione Sovietica, nei quali ricadevano rispettivamente i Paesi dell’Europa occidentale e quelli dell’Europa orientale. In questo contesto il Muro rappresentava il caposaldo della Guerra fredda e segnava una rigida simmetria tra i due blocchi; simmetria che non significava un’equipollenza economico-politica tra Europa occidentale, inglobata nell’impero americano, ed Europa orientale, inglobata in quello sovietico. Infatti, tra i due imperi esistevano profonde differenze, per cui “sotto il primo – sottolinea l’Editoriale di Limes – si stava in genere volentieri, comunisti inclusi, sotto l’altro molto meno, marxisti eterodossi inclusi”. Le preferenze erano da ricondursi a questioni di benessere, ma “soprattutto di libertà e democrazia”; situazioni troppo diverse per consentire all’intera Europa di “farsi una”. A meno di non concepire “una nuova ‘macelleria’, da cui estrarre un improbabile monocrate paneuropeo”.

Tuttavia, malgrado le differenze tra i due imperi, il Muro non era il supporto di una contrapposizione totale tra le due superpotenze, ma un “meccanismo di controllo del rispettivo campo”, che ognuna usava su un  doppio frnte: “contro il nemico esterno dotato di efficienti quinte colonne e contro gli inaffidabili di casa propria”. La funzione del Muro e della Guerra fredda era quindi quella di legittimare la permanenza dei due imperi; a tal fine, entrambe le superpotenze si aiutavano vicendevolmente, nel senso che l’Unione Sovietica dava una mano “al Nemico castigando quando necessario velleitarie deviazioni rivoluzionarie […] di comunisti attivi in Occidente”, A loro volta, gli Stati Uniti lasciavano che Mosca fosse libera di agire all’interno del proprio blocco socialista per reprimere ogni tentativo compiuto dai Paesi del blocco di deviare dall’ordine imposto.

Il bipolarismo era dunque un sistema ostile, ma integrato, nel sesso che USA e URSS poggiavano gli uni sull’altra, e viceversa, per la conservazione dello status quo, utilizzando il Muro come “spina dorsale”, con cui hanno trasformato la contrapposizione nel quarantennale stato di sicurezza e di pace del quale hanno goduto tutti gli Stati europei.

Con la fine degli anni Ottanta, la disillusione che il crollo del Muro potesse migliorare le condizioni economiche e politiche di tutti i Paesi dell’Europa, è valsa “ad abolire – sostiene l’Editoriale di Limes – chi vuole abolire la storia”; ciò perché il crollo del Muro, più che migliorare le condizioni economiche e politiche, ha favorito il diffondersi di una tendenza, oggi comune a tutti i Paesi dell’intero Vecchio Continente, consistente “nel riuso geopolitico del passato”; dopo lo smantellamento della Cortina di ferro e il crollo del Muro – come afferma Antonio Versori, in “L’impatto della caduta del Muro sull’integrazione europea” (Italianieuropei, n. 6/2014) –, “barriere non sempre informali, [hanno ridisegnato] frastagliati recinti fra tribù rivali, da un estremo all’altro del continente, con forte addensamento nelle ex province sovietiche”.

In particolare, nello spazio comunitario, colto di sorpresa “dal ritorno della storia”, si è diffuso un malinteso senso del principio di autodeterminazione dei popoli che ha spinto alcune componenti sociali dei Paesi comunitari a manifestare, sulla base di pretese affinità storiche e culturali, opzioni indipendentiste; mentre si è trascurato quasi del tutto l’impatto che il crollo del Muro ha avuto sul risorgere della potenza egemonica della Germania, che da allora sino ai nostri giorni, nonostante la crisi economica dalla quale anche l’economia tedesca sembra essere contaminata, sta condizionando il processo di integrazione europeo.

La caduta del Muro di Berlino aveva dato l’impressione che il processo di unificazione politica dell’Europa potesse essere accelerato; ma l’idea che l’UE allargata ai Paesi dell’Est potesse imprimere un’accelerazione a tale processo è stata illusoria; infatti, le tendenze originate dal crollo del Muro hanno riproposto in forme radicalmente nuove gli egoismi nazionali.

A partire dalla fine degli anni Ottanta, i vecchi Stati aderenti al disegno europeo si erano trovati di fronte a uno scenario internazionale in rapida evoluzione, sia dal punto di vista politico che da quello economico: da un lato, le scelte compiute dal nuovo segretario del PCUS, Mikhail Gorbaciov, facevano presagire una nuova fase di distensione e di apertura al dialogo fra Est e Ovest […]; dall’altro la visione neoliberista, di cui Margaret Thatcher e Ronald Reagan venivano raffigurati come i massimi sostenitori”, si stava affermando in tutto il mondo occidentale e sembrava destinata a diffondersi anche nelle nazioni del terzo mondo, sino ad allora legate “ai modelli di economia pianificata quali strumenti che avrebbero consentito loro di uscire dalla condizione del sottosviluppo”.

In questa prospettiva, la caduta del Muro e, soprattutto, la rapida riunificazione tedesca sono state accolte positivamente dai Paesi dell’Europa occidentale; ciò perché la fine dell’equilibrio del terrore e dell’incubo di uno scontro nucleare fra Mosca e Washington apriva all’Europa opportunità e possibilità inimmaginabili solo alcuni anni prima. Alcuni leader europei, però, hanno accolto con preoccupazione la fine degli equilibri della Guerra fredda, consci del fatto che avrebbe creato il problema di una Germania più forte all’interno della nuova Europa.

E’ questa la ragione che ha spinto alcuni fra i principali leader europei a ritenere opportuna un’accelerazione del processo di integrazione dell’Unione, come risposta efficace per inserire la Germania in una struttura comunitaria in grado di compensare la sua maggior potenza economica e politica, con l’adozione di una moneta unica e la creazione di un’eurozona, quindi di gestire i mutamenti radicali che si stavano profilando al di là della vecchia Cortina di ferro in fase di smantellamento.

Le iniziative intraprese per compensare lo squilibrio nelle relazioni tra i Paesi membri dell’Europa, a causa della maggior forza della Germania, hanno prodotto un quadro istituzionale complesso. Soprattutto l’adozione di una moneta unica, vissuta come sacrificio da molti ambienti della Repubblica Federale Tedesca, è stata realizzata sulla base del presupposto che la futura valuta europea sviluppasse in tutti i Paesi membri politiche economiche virtuose compatibili con le modalità di funzionamento della struttura produttiva della Germania.

La crisi finanziaria ed economica avviatasi nel 2007-2008 ha messo però in evidenza i limiti dell’impianto di Maastricht. La costruzione europea si era basata in larga misura per circa quarant’anni sull’equilibrio fra i maggiori Stati membri, che aveva impedito l’emergere dell’egemonia di un solo Paese; ma la presenza di una Germania non più condizionata dalla sua divisione e la liberazione dell’Europa dai pericoli della Guerra fredda hanno invece fatto sì che all’equilibrio si sovrapponesse l’affermazione dell’egemonia tedesca.

In conclusione, dopo tanti anni dalla caduta del Muro, sembra dunque ripresentarsi in Europa, sia pure in termini diversi, quella “questione tedesca” che il compimento del disegno europeo avrebbe dovuto risolvere; al contrario, la riunificazione della Germania e il nuovo meccanismo di regolazione delle relazioni economiche e finanziarie tra i Paesi comunitari, hanno riproposto la percezione nell’opinione pubblica europea di timori e paure che, con il crollo del Muro, sembravano definitivamente superare.

Singolari sarebbero state, secondo Paolo Peluffo, già portavoce del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, le ragioni dell’adesione dell’Italia al progetto di adozione dell’euro e di costituzione dell’eurozona; l’ex portavoce, nell’articolo “Ciampi volle l’euro per salvare l’Unità d’Italia” (Limes n. 10/2019), riporta che l’adesione dell’Italia all’euro è da ricondursi all’azione di Ciampi che, in qualità di Ministro del Tesoro e della Programmazione Economica del primo Governo Prodi, contrariamente a quanto si sostiene, non è stata tanto determinata dal suo europeismo, quanto, al contrario, dalla sua convinzione che all’epoca lo Stato Nazionale Repubblicano fosse in grave pericolo e “fosse dunque prioritario metterlo al sicuro con l’aggancio ai Paesi europei più forti e avanzati in un inestricabile groviglio istituzionale”.

Ciò su cui ancora si discute circa l’adesione dell’Italia all’euro è che le conseguenze negative patite dal Paese (soprattutto dopo la Grande Recessione del 2007-2008), a causa della rigidità degli automatismi di stabilità monetaria convenuti con il Trattato di Maastricht, siano da ricondursi alla fretta con cui è stata presa la decisione. In realtà, questa fretta sarebbe stata del tutto giustificata – afferma Peluffo – “dalla estrema preoccupazione per il progetto secessionista della Lega Nord di Umberto Bossi” e per le “interviste che Gianfranco Miglio concedeva ai mass-media sulla proponibilità della divisione dell’Italia in tre Stati-Cantoni indipendenti. In quest’ottica, secondo Peluffo, appare del tutto immotivata “l’interpretazione di chi, anche recentemente, ha puntato il dito contro il patriottismo di Ciampi, qualificandolo senza dubbi come nazionalismo di destra, anzi di estrema destra”.

Sia come sia, non appariva del tutto infondata la sensibilità patriottica di Ciampi, nel momento in cui l’Italia decideva di aderire all’euro, se si pensa che alcuni anni più tardi (nel 2001) veniva approvata una riforma costituzionale voluta dal Centro-Sinistra, nella presunzione di arginare sul piano elettorale la Lega Nord; una riforma che, pur supponendo potesse servire a contenere sul piano politico le pretese della Lega, esponeva seriamente il Paese al pericolo di una sua divisione.

Per gli Italiani, il caso ha voluto che il progetto leghista non si realizzasse; in caso contrario, essi, oltre agli effetti negativi connessi alla rigidità delle regole fissate a Maastricht a salvaguardia della stabilità dell’euro, avrebbero dovuto subire anche quelli che sarebbero seguiti alla perdita dell’unità politico-istituzionale del loro Paese.

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