Perché spostare la statua di Carlo Felice

16 Giugno 2020
[Francesco Casula]

Sull’onda delle proteste per l’assassinio di George Floyd, l’afroamericano ucciso da un agente della polizia, che l’ha brutalmente soffocato, inginocchiandosi sul suo collo, i dimostranti americani hanno colpito i simboli del potere schiavista. E fra gli altri, se la son presa con Cristoforo Colombo: considerato un colonizzatore e uno sterminatore di nativi americani e dunque indegno di troneggiare in un parco.

Dall’altra parte dell’oceano, la furia contro le statue di antichi trafficanti di schiavi ha contagiato tutto il Regno Unito.

Contro tale furia iconoclasta l’intero apparato (e arco) del potere politico-mediatico, in una sorta di union sacrée, ha sparato a palle infuocate. Molto bene.

Ma c’è da chiedersi: perché non c’è stata la stessa virulenta condanna in occasione dell’abbattimento dei altre statue: e non penso solo a Saddam?

“I nostri occhi – scrive opportunamente Nicolò Migheli – sono pieni di Stalin rimossi, di Hussein divelti da funi legate a carri armati, di testoni di Mussolini trascinati nella polvere alla caduta del fascismo”.

In quelle occasioni ci fu anzi il plauso di tutto l’armamentario mediatico occidentale e si parlò di ritorno alla democrazia e alla libertà.

Due pesi e due misure?

In questo caso temo e sospetto che la violenza sia stato solo un pretesto, per i giornaloni italici e non solo.

Per stare nel nostro “cortile sardo”, ricordo che come “Comitato per spostare la statua di Carlo Felice” siamo stati accusati di essere iconoclasti e dei talebani anche noi: eppure tutta la nostra azione è sempre stata non violenta e  pacifica. Mai nessuno di noi ha parlato di “abbattimento” della statua. Abbiamo proposto e proponiamo di “rimuoverla” per collocarla nell’androne dell’ingresso principale del Palazzo Regio in Piazza Palazzo a Cagliari, casa sua: dove soggiornò per 15 anni.

La riteniamo infatti un “manufatto”, persino con elementi di “bene culturale”, architettonico, scultorio. E’ dunque giusto che venga conservato e non distrutto. Ma non esibito. Esposto in una pubblica Piazza. Come fosse un eroe da omaggiare e non un figuro, oggetto di condanna sprezzo e ludibrio.

Lo spostamento di quella statua, sarebbe un evento formidabile per l’intera Sardegna: innescherebbe processi di nuova consapevolezza identitaria e di  autostima. E insieme – dato a cui sono estremamente interessato – sarebbe un’occasione formidabile per favorire la curiosità, il risveglio e l’interesse per la storia sarda: altro che seppellimento o cancellazione della storia come, in modo insipiente e strumentale, qualcuno afferma!

Anche perché – come osserva acutamente la ricercatrice Valeria Deplano (Università di Cagliari) – Le statue, come i monumenti commemorativi, o la toponomastica, non sono infatti “la storia”, ma uno strumento attraverso cui specifici personaggi o eventi storici, accuratamente selezionati, vengono celebrati; nella maggior parte dei casi – non sempre – sono le istituzioni, in particolare quelle statali, a scegliere chi o che cosa sia degno di essere ricordato e celebrato. Si tratta di un’operazione centrale per la costruzione di una narrativa nazionale funzionale alla visione del potere stesso: il modo con cui si sceglie di ricordare il passato e di celebrarlo infatti influisce sul modo con cui gli individui e le comunità guardano il mondo, sé stessi e gli altri.  Questo vale ovunque, e in qualunque epoca.

Naturalmente, la statua, nell’androne del palazzo regio, dovrà essere senza piedistallo e corredata da una adeguata didascalia, magari prendendo in prestito i giudizi e le valutazioni di storici a lui contemporanei, come Pietro Martini, uno dei fondatori della storiografia sarda, peraltro filo monarchico e filo sabaudo (Era alieno dalle lettere e da qualsiasi attività che gli ingombrasse la mente); o di eminenti storici più recenti come Raimondo Carta Raspi (Era più ottuso e reazionario d’ogni altro principe, oltre che dappocco, gaudente parassita, gretto come la sua amministrazione).

Perché, c’è da chiedersi allora, ci si oppone? Forse la risposta, essenziale e urticante, l’ha data in un suo post il sociologo e docente universitario sardo Alessandro Mongili: “Non sono contrari allo spostamento di Carlo Felice, sono contrari a qualsiasi liberazione della Sardegna. Sono troppo affezionati alla loro identità tzeraca. #cds Anthropology. Bisogno di papà terramannesu. Paura del cambiamento. Paura di passare da grezzi fuori moda. Pavidità come forma prevalente di vita. Conformismo. Perbenismo. Cose così”.

Insomma non tocheis nudda:  quieta non movere.

Non capendo l’alto valore simbolico negativo di quella statua (e di altre nelle Piazze sarde). A sottolinearlo con dovizia di argomenti è il docente universitario Giuseppe Melis, promotore del Comitato stesso: quella statua sta lì a “segnare” e “marchiare” il territorio, a dirti, dall’alto, che lui è il regnante e tu sardo, sei ancora suddito. Dunque devi continuare a omaggiarlo, a riconoscerlo come tale. Anche se da vice re come da re è stato il tuo carnefice e un tiranno famelico, ottuso e sanguinario, come documentato – fra gli altri  – dagli storici cui rimando.*

Non capendo – come scrive efficacemente lo storico Omar Onnis – che “Dietro i simboli del potere ci sono sempre assetti materiali, rapporti di forza, diseguaglianze sociali. Vale anche per la Sardegna e per la questione delle statue e dell’odonomastica”.

Ci è stato suggerito: non sarebbe più semplice lasciare la statua dov’è ma corredarla di una didascalia che documenti le sue malefatte?

Ha risposto, con saggezza, Antonello Gregorini, di Nurnet-La rete dei nuraghi:” Ma allora che figura farebbe Cagliari, e la Sardegna, di fronte a un visitatore che venisse a sapere che i nostri cittadini hanno voluto celebrare, a futura memoria, un tiranno di quella caratura? Quanto meno penserebbe che siamo dei poveri codardi autolesionisti”.

Concludo. Sono stato a più riprese accusato personalmente di essere “rancoroso” verso la storia. Nemmeno per sogno. Nessun ripiegamento nostalgico o risentito verso il passato: ma il passato sepolto, nascosto, rimosso, si tratta prima di tutto di dissotterrarlo e conoscerlo, perché diventi fatto nuovo che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro, il mondo lottando contro il tempo della dimenticanza.

 

*

  1. Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Ed. Mursia, Milano, 1971.
  2. Pietro Martini, Storia di Sardegna dall’anno 1799 al 1816, a cura di Aldo Accardo, Ilisso Edizioni,1999.
  3. E. Pontieri, Carlo Felice al governo della Sardegna (1799-1806), pagina 80,
  4. Giuseppi Dei Nur, Buongiorno Sardegna: da dove veniamo, Ed. La Biglioteca dell’Identità, 2013, pagina 154.
  5. Le Carte Lavagna e l’esilio di Casa Savoia in Sardegna di Carlino Sole (Giuffrè editore, Milano 1970, pagina 26-27.

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