Potere e parole. Perché il potere vuole smantellare la scuola pubblica?
9 Giugno 2025[Maurizio Maretti]
Il movimento, passato alla storia come “Il Sessantotto” fu una vera e propria rivoluzione culturale che contagiò tutto l’occidente.
Dal 1968 e per buona parte degli anni Settanta, movimenti studenteschi e giovanili, padroni della parola, hanno alzato la voce, fino a contagiare tutta la società. A partire dalle scuole, sono stati messi in discussione alcuni principi e istituzioni cardine della società: l’organizzazione e gli obbiettivi educativi e formativi delle scuole, la struttura e il valore della famiglia borghese, il paternalismo, la sessualità, il ruolo delle donne, le politiche imperiali e di guerra nelle lotte contro l’intervento Usa in Vietnam, le politiche basate su razzismo e ingiustizie sociali.
In molti paesi, nelle fabbriche, operai e sindacati con riunioni, assemblee, manifestazioni e scioperi, hanno iniziato a lottare, prima per il rinnovo dei contratti di lavoro poi, soprattutto per cambiare l’organizzazione stessa del lavoro: maggiori diritti, maggior rispetto dei lavoratori, migliore sicurezza e più democrazia. Le lotte hanno investito il sociale, coinvolgendo le donne e le famiglie. In Italia, in quegli anni, grazie a quelle lotte hanno prodotto importanti conquiste.
Per il lavoro si sono ottenuti contratti di categoria unici per tutta Italia, il Contratto Nazionale di Lavoro, l’aggancio degli stipendi all’aumento del costo della vita, la contingenza, la legge di parità fra uomini e donne sul lavoro con parità salariale; mentre nel sociale, la sanità pubblica unica e nazionale, il divorzio, l’aborto, la legge Basaglia che portò alla chiusura dei manicomi, una vergogna nella società moderna, la legge Merli per la tutela delle acque dall’inquinamento, il nuovo Diritto di Famiglia, non più un capofamiglia padre padrone, ma pari diritti e doveri per uomini e donne, un piano nazionale di Asili nido. Alcune conquiste furono da subito disattese, mentre per altre si sta cercando ancora oggi, con varie modifiche e regolamenti attuativi, di renderle inefficienti.
Gli anni Settanta furono anche anni di crisi: economica, di sovrapproduzione, di alta inflazione, e dal 1973 con due crisi energetiche, derivate dagli interessi dei petrolieri sul controllo della produzione e mercato del petrolio, e poi la crisi sociale legata agli importanti movimenti popolari che richiedevano riforme e maggiori diritti. Quegli anni furono momento di transizione tra l’ordine postbellico e il nuovo mondo che stava nascendo, quello neoliberale e globalizzato che conosciamo oggi.
In molti paesi governati dalle destre, in particolare quelli a guida liberista, alla fine degli anni settanta, l’arrivo al potere di due politici sostenitori del primato del privato sul pubblico, Margareth Tatcher nel Regno Unito dal 1979 e Ronald Reagan negli USA dal 1980, di fronte alla situazione di incertezza economica e sociale, da un lato hanno risposto con importanti politiche repressive, e dall’altro avviato un intervento a lungo termine, cambiando paradigma dell’intera organizzazione sociale, attuando risposte neo-liberiste il cui impatto ha segnato profondamente anche i decenni successivi, cambiando la politica economica mondiale e l’organizzazione dello Stato. Nelle fabbriche le lotte operaie avevano messo a nudo i limiti strutturali e culturali dell’organizzazione Fordista del lavoro, le fabbriche sono state velocemente trasformate.
Le catene di montaggio, diventate negli anni luoghi di naturale aggregazione della protesta operaia, furono riorganizzate, da linee di montaggio diventarono isole. Grazie allo sviluppo dell’automazione industriale, fino ad allora esclusivamente semi-automatica, vennero introdotti i primi nuclei di quell’automazione, che avrebbe portato molte mansioni fino ad allora svolte dall’uomo, sostituito da macchine automatiche e robot. In questo sviluppo venne coinvolta quella parte di classe operaia, la più specializzata e con vaste conoscenze pratiche e specifiche sul lavoro manuale che svolgeva. Questa collaborazione, anche se ebbe un inizio difficile, aiutò e spinse l’ingegnerizzazione, lo sviluppo e la costruzione delle prime “fabbriche automatiche”, trasferendo molte abilità e competenze dall’uomo alla macchina.
Senza il loro contributo, si erano infatti riscontrate grandi difficoltà nel mettere correttamente e soprattutto produttivamente in funzione i nuovi macchinari e reparti. Questo coinvolgimento avvenne grazie all’illusione, veicolata da alcuni intellettuali e dai media di allora, di una futura fabbrica, dove l’aumento di produttività e la riduzione di lavoro nocivo e pericoloso, avrebbero portato alla riduzione dell’orario lavorativo, a migliori condizioni, e lavoro per tutti.
In sintesi, il messaggio era: per un futuro migliore dove “lavorerete tutti e lavorerete meno”! Slogan che si poteva udire, come richiesta, anche nelle manifestazioni operaie degli scioperi del 1969, dimostratosi poi, come oggi è evidente, un grande inganno. Grazie al nuovo modello di sviluppo economico-produttivo, di organizzazione del lavoro e sociale sono iniziati i primi vagiti di quel neoliberismo che ha portato poi alla globalizzazione. Per vederne i risultati è sufficiente oggi esaminare come si è trasformato il lavoro: elevato sfruttamento, precarietà, insicurezza sia per la salute che per il futuro, stipendi spesso sotto la soglia di povertà.
In Italia nel 2022 lo stipendio medio dei giovani era 15.070 euro all’anno (fonte elaborazione AUR su dati Inps 2022), 1.250 euro al mese, quando la soglia di povertà assoluta, ad esempio, nella regione Piemonte era 1.200 Euro/mese. Gli incidenti sul lavoro in Italia sono in continua crescita, nel 2024 sono stati 589.571 con 1.090 decessi, 3 morti al giorno sul lavoro! In tutta Europa vi è un generale grave allarme per morti da Stress sul lavoro: nel 2024 sono stati oltre 10 mila. «Non credere mai a chi vende la luna!». Sull’altro terreno, quello dell’investimento strategico su formazione e cultura, si è assistito allo svuotamento costante del valore educativo e formativo dell’Istruzione Pubblica.
Si è iniziato dalla riorganizzazione le scuole, dalle elementari all’università. con la revisione dei curricula e dei regolamenti scolastici, introducendo rappresentanti delle famiglie nei consigli di classe delle medie superiori, nel tentativo di maggior controllo sui ragazzi che manifestavano e occupavano le scuole. In Italia già dagli anni ‘70 si è cominciato a destrutturare le scuole superiori, con i “Decreti Delegati”, chiamati dall’opposizione “decreti malfatti”, dal nome dell’allora ministro della Pubblica Istruzione Franco Maria Malfatti. Negli anni 80 con la legge 382-1980 vi è stato un intervenuto importante sull’università, con un abbassamento pericoloso della qualità della formazione e un aumento della gestione burocratica.
Dagli anni ‘90, nella scuola, con la fine della Prima Repubblica, si è dato avvio a una serie di riforme che hanno comportato altri tagli ai bilanci, dunque mancati investimenti in strutture e laboratori, strumenti essenziali nella formazione professionale, tecnica e scientifica, con l’aumento del numero di alunni per classe, e la diminuzione conseguente del numero di insegnanti, e introducendo inutili, pretestuose e pedanti ingerenze burocratiche per il personale docente. Nel 1999 fu la volta dell’insensata riforma n. 509 dell’università, che ha dato avvio ai corsi 3+2, creando ulteriore confusione e aumentato i problemi di dequalificazione dei corsi universitari. Di questi giorni la notizia sui nuovi tagli agli atenei nel prossimo triennio di 700 milioni di euro, con la grave situazione di oltre 30 mila ricercatori precari a un passo dall’espulsione dal sistema per effetto dei tagli del governo.
E tutto questo con la giustificazione delle crisi economiche che hanno colpito gli stati nazionali, crisi dovute soprattutto a quel liberalismo selvaggio, che dagli inizi anni ‘80 in poi, trasferiva sempre più l’economia e i capitali dalla produzione alla finanza, con la globalizzazione e la creazione di imprese multinazionali, la cui sede era diventata il mondo, migrate quindi al di fuori del controllo e della tassazione degli Stati Nazionali. È in questo contesto che, Tullio De Mauri, Linguista e filosofo del linguaggio, in un’intervista del 2016 a riporta che in Italia, la parte di popolazione che ha difficoltà gravi nella comprensione di un testo sono il 70% (7 SU 10), mentre quelli che hanno difficoltà importanti a utilizzare quello che leggono su un testo scritto per discuterne o relazionare, sono l’80% (8 su 10).
Cinque milioni di italiani inoltre hanno completa incapacità di lettura (circa 1 su 10). Da tre indagini internazionali comparative e osservative, non fondate su autodichiarazioni, ma attraverso questionari, risulta che, dopo l’uscita dalla scuola ci sono fenomeni di regressione spesso ai livelli più bassi di alfabetizzazione. I Nostri laureati hanno competenze linguistiche ed ingegneristico-scientifiche inferiori ai diplomati di molti paesi Europei. Questo perché il compito della scuola, così come in questi ultimi cinquanta anni si è andata strutturando, è stato semplicemente quello di scolarizzare i giovani, il futuro “popolo”, di educarlo a comprendere i meccanismi di questa nuova forma di post-modernità, ad accettare chi comanda e a osservare le regole, accogliendo passivamente quello che è l’ordine sociale che da adulti si troveranno a vivere, rispettandone i ruoli e le gerarchie. In definitiva creare un cittadino senza più competenze, senza alcuna professionalità, senza passato, ma soprattutto diconseguenza senza più Parole e Voce.
La scuola dunque, non dovrà più formare il cittadino, non dovrà dare ai giovani le risposte sulle grandi questioni della vita, dare competenze tecniche, basi scientifiche, non insegnare a condividere il sapere e acquisire la capacità di ricercare le risposte alle domande del quotidiano, poiché la cultura non dovrà più essere considerata “… come presa di possesso della propria personalità, diventare conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore, la propria funzione nella vita, i propri doveri.”. (Gramsci, Socialismo e Cultura, 1916).
È meglio che i cittadini, non solo non possano avere la parola, e non possano partecipare appieno alla vita sociale, ma non abbiano neppure gli strumenti culturali per formulare un linguaggio adeguato, e soprattutto non siano padroni delle parole adatte per un pensiero idoneo, articolato e comprensibile, che dia a tutti la possibilità di capire, non solo ciò che dice chi “comanda”, ma anche la capacità di rispondere in modo pertinente. “Parlare prima di tutto vuol dire avere il potere di parlare, l’esercizio del potere assicura il diritto alla parola: solo i capi possono parlare. Quanto ai loro sottoposti, per loro vale il silenzio del rispetto, della venerazione o del terrore. Ogni presa del potere è anche un assumersi il diritto di parola…”. Pierre Clastres da un articolo sulla società dei Tipì-Guaranì del Paraguai.
Il re, il dittatore, l’autocrate, il generale, il padrone, l’amministratore delegato, l’uomo di potere in genere, non solo è colui che parla, ma anche origine e detentore della parola di comando.
L’etnologia però ci spiega come nel mondo selvaggio, primitivo, le società senza Stato ci propongono una diversa visione, un modo diverso di intendere il rapporto tra potere e parola, nel dare cioè importanza alla parola. Nelle tribù Amerindiane ancora oggi presenti in piccoli gruppi in Amazzonia, non viene riconosciuto al capo il diritto di parola, ma ha invece un dovere di parola.
Per il capo, parlare è un obbligo, un dovere, e nello stesso tempo le sue parole non sono di comando, non è un discorso di potere, sono parole vuote, non impongono, sono parole che raccontano semplicemente le storie e i riti che arrivano dal passato della tribù, Parole che Tramandano la memoria e il sogno. Il capo è un leader senza potere, non può abusare del potere che non ha, altrimenti verrebbe subito abbandonato. Il capo riveste invece un importante ruolo di mediazione e di pacere del gruppo. Mentre per le decisioni sulla vita sociale, la Parola e l’Esercizio del Potere sono del gruppo. Una interessante e semplice divisione dei poteri, una forma di democrazia che ci arriva probabilmente dai nostri comuni antenati, raccoglitori e cacciatori vissuti oltre diecimila anni fa.
Saper comunicare è la nostra abilità più importante, quella che ci ha condotto dove siamo, nel bene e nel male. Riusciremo a camminare ancora in questo spazio/tempo, oggi confuso e difficile, solo se sapremo agire con un’etica comune della condivisione, dell’ascolto, del rispetto e della solidarietà, che ritrasformi la terra in un grande paese vivibile per tutti, ma soprattutto se riusciremo a trovare nuovi significati alle Vecchie Parole.
____
Nell’immagine: Murale ad Orgosolo