Il loro grido è la mia voce, poesie da Gaza: versi di speranza e sangue per non restare nell’indifferenza
7 Ottobre 2025
[Mattia Lasio]
La speranza si coltiva giorno dopo giorno tenacemente, anche quando tutto sembra crollare. La speranza è fatta di istanti, piccoli gesti, parole.
Parole che sommate l’una con l’altra danno vita a un discorso coeso che dimostra quanto il linguaggio possa scalfire anche la ferocia e la violenza più granitiche. Parole di cui è ricca la raccolta pubblicata da Fazi Editore ‘’Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza’’, contenente al suo interno 32 poesie di autori e autrici palestinesi composte dopo il 7 ottobre del 2023. Poesie per non chinare la testa davanti a quanto sta accadendo in Palestina, poesie che testimoniano quanto la letteratura possa farsi realmente portavoce di un messaggio di fiducia, di protesta e di coraggio nel momento in cui vengono meno persino i minimi diritti che rendono una persona realmente umana.
Queste poesie non sono semplicemente componimenti in versi di caratura e di elevata statura contenutistica: sono qualcosa di molto più profondo, sono la dimostrazione che le parole possono fare da scudo contro la paura riuscendo a contrapporsi a quelle pratiche disumane e a quelle ingiustizie che, come affermativa lo scrittore Edward Said, sfigurano da sempre la storia dell’umanità, troppo spesso nell’indifferenza generale. Proprio contro l’indifferenza generale, però, si muovono queste poesie capaci – come scriveva il più significativo poeta palestinese Mahmud Darwish – di volteggiare più in alto dei fucili, dei raid, delle bombe, delle meschinità compiute da chi fa del potere un uso diabolico e malato.
La poesia, come rimarcato nella prefazione dell’opera da Ilan Pappé direttore del Centro europeo per gli studi sulla Palestina presso l’Università di Exeter, è sempre stata una delle manifestazione principali della cultura araba grazie alla sua capacità di fiorire nelle avversità e di sostituirsi alle voci censurate dalla politica, sin dai tempi della Nakba nel 1948. E se si parla di voci, sono varie e risolute quelle che si elevano da una raccolta che invita non solo a una riflessione attenta su quanto si sta verificando in Palestina ma che rappresenta una presa di posizione netta scandita da versi scagliati come pietre nei volti di chi ancora fa finta di niente e preferisce ignorare ciò che è sotto gli occhi di tutti.
La raccolta si apre con i versi di Hend Joudah che si domanda: «Cosa significa essere poeta in tempo di guerra?», per poi rispondersi: «Significa chiedere scusa, chiedere continuamente scusa, agli alberi bruciati, agli uccelli senza nidi, alle lunghe crepe sul fianco delle strade». Pochi versi dopo rilancia, focalizzando il suo sguardo proprio su coloro che stanno al sicuro e restano nella più totale indifferenza. Subito dopo è la volta della poetessa Ni’ma Hassan, nata a Rafah e impegnata nell’uso delle arti per la cura dei bambini vittime di traumi di guerra. Le sue parole sono indirizzate a tutte le madri di Gaza, mettendo in risalto la loro unicità: «Una madre a Gaza», scrive, «non è come tutte le madri. Fa il pane con il sale fresco dei suoi occhi e nutre la patria con i suoi figli». Yousef Elqedra, peota classe 1983, si scaglia contro il servilismo verso l’America da parte dell’Occidente e conclude la sua riflessione domandandosi «cosa può una poesia? ». Particolarmente significativo anche il flusso lirico dai tratti onirici di Ali Abukhattab, cofondatore del collettivo Utopia che riunisce scrittori e scrittrici provenienti dalla Striscia di Gaza. È la volta poi della poetessa e fotografa Dareen Tatour, incarcerata per la poesia ‘’Resisti o popolo mio, resisti loro’’ che nel 2025 celebra i dieci anni dalla sua pubblicazione. A Dareen Tatour si deve un tributo all’arte della scrittura e alla sua capacità di ergersi contro i potenti: «Nell’inchiostro della mia penna – scrive in ‘’Allucinazioni di una poetessa prigioniera condannata per terrorismo’’ – c’è vita. Le vostre armi saranno annientate e la poesia rimarrà viva». In ‘’Un attimo prima della morte’’ prosegue concentrandosi sul significato più profondo della poesia che definisce in maniera ferma e determinata: «La poesia è come il filo delle spade, come il tuono del cielo, perché tutti i proiettili che hanno sparato per soffocare le parole, per uccidere la nostalgia, per uccidere l’antico e il nuovo, per il nostro annientamento aumentano la resistenza, rafforzano la volontà».
La volontà di non piegarsi davanti a un mondo da sempre troppo indaffarato che non ha tempo per soffermarsi sulle atrocità che si verificano sul suolo palestinese, come rimarcato dall’ingegnere e scrittore Marwan Makhoul che, con i suoi ‘’Versi senza casa’’, si rivolge direttamente a ciò che scrive in modo struggente e sognante: «Anche tu, poesia mia, morirai sicuramente, eppure scriverò e possa tu vivere anche solo un po’ dopo di me». La schiettezza e la rabbia sono le linee che seguono i versi del giovane Yahya Ashour classe 1998 che in ‘’Porgi l’altra guancia’’ dice senza mezzi termini. «Non c’è legislatore né governante, né d’Oriente né d’Occidente, che possa cancellare la morte dalla tua fronte, o Gaza».
Tra gli interventi più significativi spiccano quelli della poetessa e biochimica Heba Abu Nada, classe 1991 venuta a mancare il 20 ottobre del 2023 a Khan Yunis uccisa da un bombardamento israeliano, che nelle sue riflessioni descrive la notte della città definita «buia tranne che per il bagliore dei razzi, spaventosa tranne che per la serenità della preghiera, nera tranne che per la luce dei martiri». Altro momento particolarmente intenso dell’opera è costituito dalla poesia ‘’I giovani liberi’’ di Haidar al-Ghazali, nato nel 2004, in cui sono contenuti i versi che danno il titolo all’opera. La sua è una poetica delicata, bagnata di rugiada, e al contempo dotata di quella crudezza tipica di chi ha visto con i suoi occhi le cannonate ma nonostante ciò non ha distolto lo sguardo.
Il finale dell’antologia, contenente anche i preziosi interventi di Susan Abulhawa e Chris Hedges, è all’insegna di Refaat Alareer ucciso da un raid dell’esercito israeliano il 6 dicembre del 2023. Il suo componimento «Se devo morire», pubblicato poco prima di essere ucciso, suona come un testamento e si rivolge ai posteri: «Se devo morire, tu devi vivere per raccontare la mia storia. Se devo morire che porti speranza, che sia una storia». Una storia da tramandare e da proteggere. Non una storia qualunque ma quella del popolo palestinese e di tutti coloro che non sono rimasti in silenzio davanti alla disumanità che non conosce altro linguaggio se non quello dell’oppressione. Una storia che va difesa e che questi versi aiutano a custodire e a rimanere profondamente intatta.