Il viaggio verso la libertà degli “Uomini sotto il sole” di Ghassan Kanafani, nonostante l’amarezza e il dolore
1 Novembre 2025
[Mattia Lasio]
Sognare, nonostante tutto. Nonostante la consapevolezza che questo desiderio potrebbe non realizzarsi, nonostante le avversità che mettono spalle al muro. Sognare, proprio così: anche se farlo, talvolta, può condurre a esiti drammatici.
‘’Uomini sotto il sole’’ di Ghassan Kanafani, tra le voci più significative di sempre della letteratura palestinese venuto a mancare a causa di un attentato israeliano a Beirut nel 1972, è una delle più importanti testimonianze di una letteratura come quella palestinese che non è mai solamente tale ma si nutre di istanze sociali, politiche ed etiche che spingono a una presa di posizione e a una consapevolezza profonde.
L’opera, data alle stampe nel 1963 e pubblicata per la prima volta in Italia nel 1984 nel volume ‘’Palestina. Tre racconti’’ per la casa editrice Ripostes, racchiude appieno ciò che per Kanafani è la scrittura ovvero il coraggio di non restare indifferenti, il coraggio di portare all’attenzione di chi legge la meschinità di chi ricopre un ruolo di potere abusandone e, soprattutto, la necessità di trasmettere il senso di sofferenza, di alienazione e solitudine che il popolo palestinese si porta appresso quotidianamente.
L’opera – da cui è stato tratto il film nel 1972 ‘’Gli ingannati’’ di Tawfiq Salih – è costituita da poco meno di novanta pagine, articolate in sette capitoli in cui si raccontano le vicende di quattro uomini di fasce d’età differenti di nome Abu Qais, Assad, Maruàn e la loro guida soprannominata ‘’Canna’’, impegnati nel viaggio che da Bassora – seconda città per popolazione dell’Iraq nei pressi della confluenza tra il Tigri e l’Eufrate che dà vita al fiume Shatt Al- ‘Arab – conduce verso il Kuwait che per loro rappresenta non semplicemente un nuovo approdo ma l’unica possibilità di costruirsi un domani dopo la tragedia della nakba.
Abu Qais, Assad, Maruàn per poter passare la frontiera senza essere visti verranno messi da ‘’Canna’’ nella cisterna dell’acqua del suo camion. È una scelta folle, una decisione difficile da prendere quella dei tre – che devono fare i conti costantemente con quella che in arabo viene chiamata come ‘’ghurba’’ ovvera la nostalgia struggente degli esuli palestinesi – ma di fatto l’unica possibilità in cui possono confidare per sperare di avere un futuro differente.
I dubbi accompagnano la loro decisione così come le paure e i sentimenti contrastanti che racchiudono nel loro animo: sentimenti come quelli di Abu Qais che, essendo già avanti con l’età, teme di non essere in grado di affrontare un viaggio di quel tipo, c’è la rabbia mista a diffidenza di Assad che non vuole arrendersi a un destino già scritto, c’è la disillusione del giovanissimo Maruàn che pur avendo solamente sedici anni ha compreso presto che per il denaro le persone dimenticherebbero persino gli affetti più cari e che basta niente affinché la speranza si tramuti in un baleno nella più cupa disperazione. Sarà proprio Maruan a fare la conoscenza per primo di Abu’l Khaizuran ovvero ‘’Canna’’ guida che si propone per portarli clandestinamente nel Kuwait.
Uno degli aspetti che caratterizza l’opera è il continuo riferimento al sole, un sole che Kanafani descrive come malvagio e che rovescia «sulle teste la fiamma senza tregua». È un sole che destabilizza e che costringe chi lo sente sulla propria pelle a entrare in contatto con la parte più profonda del proprio essere. Persino ‘’Canna’’, ovvero la guida, che cerca di sdrammatizzare davanti a quel sole soffocante rimugina sui propri drammi interiori e e sulla violenza subita a causa di cui è stato evirato. La sua è un’esistenza peregrina che non conosce pace. Pace che lui desidera più che mai, desiderio questo espresso da parole che colpiscono per la loro franchezza: «Voglio riposarmi», afferma. «Voglio stendermi all’ombra, a pensare o non pensare. Non voglio più muovermi. Nella mia vita mi sono stancato più del dovuto. Sì, perdio, più del dovuto».
Il sole compare prepotentemente con l’andare avanti delle vicende narrate. Cresce il ritmo della narrazione, il tono usato dai protagonisti per descrivere il contesto che vivono è risoluto e denso di significato. «Questo è un inferno. Ci si squaglia», afferma Assad durante il viaggio. Il suo è un grido che ferisce Canna, impotente davanti a una vita che non regala nulla. «In tutta la vita non ho mai visto un clima così maledetto. O Dio dei cieli», si sfoga rabbiosamente, «tu che non sei stato mai con me, che non mi hai mai guardato, e in cui io non ho mai creduto, non potresti trovarti qui questa volta, soltanto per questa volta?».
Il penultimo capitolo, intitolato ‘’Sole e ombra’’, è quello che offre i monologhi più struggenti. I tre esuli e Canna giungono alla dogana di Safwan – città del sud-est dell’Iraq, al confine con il Kuwait – convinti di riuscire nella loro impresa nonostante la sofferenza fisica e mentale con cui devono convivere. Scrive Kanafani in apertura di capitolo: «Il sole era alto sopra le loro teste, rotondo, fiammeggiante, splendente. Nessuno dei quattro aveva più voglia di parlare, non solo perché erano stremati dalla fatica, ma perché ognuno era immerso nei propri pensieri.
L’enorme camion fendeva la strada insieme con i loro sogni, le loro famiglie, le loro ambizioni e le loro speranze, miseria e disperazione, forza e debolezza, passato e futuro, come se stesse cercando di sfondare una porta immensa verso un destino nuovo e sconosciuto». Un destino che per essere raggiunto costringe i quattro ad attraversare un deserto infernale. Un deserto che l’autore descrive in questa maniera: «Questo deserto è come un gigante che colpisce le loro teste con frustate di fuoco e di pece bollente. Ma poteva il sole uccidere loro e tutto il marciume racchiuso nei loro petti? Era come se i pensieri scorressero da una testa all’altra, trepidando».
L’apice di intensità narrativa arriva nel momento in cui i quattro giungono alla frontiera di Mutlaa, l’ultimo scoglio da sueprare prima di poter approdare in Kuwait e assaporare finalmente la libertà. La guida ‘’Canna’’ deve assentarsi per sette minuti in modo tale da poter andare negli uffici in cui avere le carte firmate valide come lasciapassare.
Ma proprio questi sette minuti si riveleranno eccessivi e fatali in quanto, a causa degli scherni degli impiegati presenti negli uffici e delle loro battute di pessimo gusto, Canna pur riuscendo a ottenere i documenti necessari per oltrepassare la frontiera, una volta aperta la cisterna del suo camion si accorgerà che i suoi tre compagni di avventura sono ormai morti, stremati dal caldo e da un viaggio che li ha sfiniti senza lasciare in loro nemmeno un briciolo di energia per sopravvivere. Non resta in mano nulla ai tre esuli, non resta nulla in mano nemmeno a Canna che rimane da solo nella notte con il rimorso di non aver impiegato meno tempo e con mille domande senza risposte.
Risposte che, se anche ci fossero, non sarebbero comunque in grado di dare una spiegazione convincente ai colpi bassi che la vita sa infliggere e al perché a fare le spese di un destino beffardo siano sempre gli innocenti.







