Una vittima a caso del Capitale

1 Giugno 2010

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Pier Luigi Carta

Da Nantes a Parigi a bordo di AirFrance, fin giù a Conakry e poi in strada verso Kindia. Ero là già da dodici giorni e ormai sarei stato in grado di testimoniare gli effetti del disagio economico-sociale in cui versano i suoi 180 000 abitanti. Avevo visitato i quartieri inondati della zona Trois Rivières, con la quale la città guadagna il premio di focolaio malarico e di tutte le peggiori malattie idriche dell’Africa occidentale. Avevo visto le rudimentali industrie tessili che costringono centinaia di ragazze minorenni al lavoro di cucitura dentro a dei cargo in ferro arrugginito, in pieno giorno nel centro città. Ero entrato nelle miniere di bauxite di Débelé, dove notte e giorno, in un ecosistema rosso ruggine, si aggirano migliaia di lavoratori senza uno straccio di diritto e senza mascherina. Avrei potuto parlare di tutto ciò, ma non volendo ergermi a novello Pascal o al Victor Hugo del continente nero, ho ripensato alle cause di tali dinamiche, aiutato da “La Grande Histoire du Capitalisme”, un numero speciale della rivista Sciences Humaines, redatto da Xavier de la Vega. Perché camminando per quelle strade affumicate, l’immagine che ti investe porta già un nome: l’800, e non si può pensare a tale secolo senza parlare di Capitale, e al suo vettore influenzale, il Capitalismo. In questo stato formalmente anarchico, il Capitalismo è più radicato che mai, la società è completamente monetizzata, già durante l’impero Mandingo, il gruppo dei Pule (o Fula, in inglese) aveva introdotto il sistema commerciale, influenzato dalle popolazioni arabe nel XVIII secolo. Ma il sistema che vige ora è così diverso? Porta altri connotati solamente perché un nuovo sistema è stato iniettato con la colonizzazione prima e attraverso la neocolonizzazione poi, oppure il Capitalismo è una realtà che rincorre la storia attraverso i secoli, mutando forma secondo le contingenze storiche? La rivisitazione delle idee di Fernand Braudel e i lavori di Storia Globale hanno rimesso in tavola la questione delle origini del fenomeno Capitalismo, mostrando che molti dei suoi elementi costitutivi si possono ritrovare ben prima del XVI sec. e non solo in Europa, ma anche in Asia e presso il mondo arabo. Come l’esistenza di mercati sviluppati, del sistema di credito, di contratti salariali e dell’imperialismo. Per Braudel il Capitalismo si definisce come un’insieme di pratiche presenti in molteplici società attraverso varie epoche e non bisogna confonderlo con l’economia di mercato. Quest’ultima infatti si differenzia dal suddetto in quanto si risolve nello scambio di prossimità intervenendo in mercati regolamentati e trasparenti, mentre il Capitalismo consiste nell’aggirare le regole concorrenziali per sbloccare profitti eccezionali. Fernand Braudel (1902-1985) è uno storico francese che ha studiato la genesi del Capitalismo. Egli afferma che durante il periodo preindustriale esisteva un’economia di mercato occupante uno spazio ristretto all’interno della società, ma che funse da perno per le successive trasformazioni. La novità del fenomeno è dunque rintracciabile ben avanti la rivoluzione industriale. Nel 1979, nella sua opera “Civilisation materielle, Economie et Capitalisme”, Braudel descrive la progressiva comparsa dell’ Economia-mondo capitalista a partire dal XIII sec. Questa è andata diffondendosi su scala mondiale attraverso una successione di centri, i quali hanno raccolto, ciascuno a suo turno, la maggioranza delle attività economiche: Genova, Venezia, Bourges, Amsterdam poi Londra e infine New York. Esso dunque consiste nella ricerca di posizioni di monopolio, ottenute estendendo il circuito commerciale fino a renderlo opaco, trovando la sua migliore incarnazione nel circuito a lungo raggio, praticato dai mercanti veneziani e dagli ebrei della diaspora, dagli arabi e dagli indiani, i quali già dal primo millennio gestivano il traffico delle merci dal Mediterraneo all’Oceano Indiano e dal Mar Nero alla Cina. Questa teoria rischia però di naturalizzare il Capitalismo, rendendolo indefinito e mascherandone la sua unicità. Karl Marx, Max Weber e Karl Polany, al contrario insistono sulla sua particolarità. A loro sguardo si tratta di un tipo di organizzazione inedito nato in Europa tra il XVI e il XIX sec. Marx vede in tale regime la formazione di un proletariato obbligato a vendere la sua forza lavoro per sovvenire ai suoi bisogni, e le imprese si rendono in grado di sfruttare i lavoratori, vale a dire appropriarsi di una parte del valore che producono. Weber pone l’accento sul profitto, in quanto secondo lo storico il Capitalismo è il primo sistema economico basato sulla ricerca razionale del profitto, che si avvale delle istituzioni favorevoli, di un sistema di contabilità e di un diritto razionale. L’economista ungherese Polany completa la definizione insistendo sulla pregnanza dello Scambio Mercantile. Tutti questi fattori sono presenti e ben definiti in Guinea, salvo un diritto razionale, che in questo momento vacilla, e per questo rende più aggressive le transazioni. Tale principio include che sia la soddisfazione dei bisogni elementari che l’acquisizione dei beni che costituiscono il quotidiano delle persone sono soggetti a transazione economica, in modalità tale che la vita umana e la natura che la circonda sono regolati e condizionati dal mercato. Polany la chiama “mercantizzazione” della società. E nella società presa in questione, già resa indipendente nel 1958, con alle spalle 26 anni di filosovietismo e filomaoismo –lo dimostra l’enorme bambù piantato nel luogo di maggior bellezza della regione- il sostrato mercantile arabo ha soppiantato l’antica cultura agricola e pastorale degli antichi discendenti dell’impero Mandingo. Con un cambio disastroso di 1 a 8000 franchi guineani e una disoccupazione giovanile che sfiora il 95%, questa gente è costretta a pagare 300 F un sacchetto d’acqua potabile da 20cl. Pur essendo immersi in un castello d’acqua e circondati da frutta di ogni tipo e terra fertile, consacrano la totalità delle spese alla nutrizione. La Sanità, per quanto scadente e basilare, ha un prezzo di listino che fa invidia alla A.S.L. La manodopera ha un costo prossimo allo zero e le condizioni di lavoro della minoranza occupata sono a dir poco sregolate. Le forze armate, maggior spesa statale, costituiscono la leva visibile della corruzione. Le joint-venture accaparrano tutto ciò che riescono a trovare nel sottosuolo incentivando la deforestazione scriteriata e l’inquinamento, lasciando solo le briciole alla comunità. Una società “mercantizzata” come questa implica la svalutazione della vita umana, il soldo è alla base di tutte le interazioni, alle quali non si sottraggono il sesso, il matrimonio e la morte. Le morti si pagano in F, come la stessa esistenza. Dalla caduta dell’ultimo dittatore Dadis Camara, ferito e costretto all’esilio, i guineani attendono l’avvento della democratura occidentale, prevista per il 27 giugno. Data convenzionale promessa da el Tigre Konaté, ex capo militare e presidente di transizione, le elezioni sono partecipate da 124 partiti, 32 proposizioni e 24 candidati accettati, con un drenaggio di denaro capace di bloccare tutte le attività della capitale e trascinare nelle strade forse tutta la cittadinanza. Nel frattempo i servizi idrici ed elettrici semiprivati sono inefficienti, e si invoca più privatizzazione e mentre i militari ancora in giro per le strade drenano soldi ai civili, si avverte che in uno stato in anarchia amministrativa la vita si paga in F. Il Capitalismo in Guinea è il risultato di cinque secoli di tratte negriere, poco più d’un secolo di colonizzazione e 50 anni di dittatura, e lontano dal punto cardine che regola il Sistema-mondo (concetto elaborato da Immanuel Wallerstein) il Capitale, anche in questo suo momento di crisi, è presente in tutte le sue dinamiche in una forma spietata, sovrapposto a tutte le antiche realtà familiari, comunitarie e tribali. Risultato: la Guinea è il 6° paese più povero del mondo e la morsa di tale fenomeno è, si può constatare di persona, asfissiante.

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