Metatempo

1 Giugno 2010

piras

Natalino Piras

Il giorno prima della vendetta Dalton Clericus fece da solo un ultimo giro di ricognizione nell’arteria ormai in disuso che inizia alla periferia di Naim-Aru, attraversa Feru e oltrepassata la bassura della parete delle janas sbuca proprio davanti alla cantoniera abbandonata, una parete di rosso antico ferita da incrostazioni di calce.
Uscì dalla foresta  che ancora gli suonava in mentes la canzone degli abigei e dei ladri di cavalli:
Pereduc ladro  ha passo di destriero
un fulmine lo possa incenerire !
Dice: ho visto mio padre correr fiero
lui uomo vecchio, cent’anni ad aprile.
Subentrò un mare d’erba, rombare a corno ed eco in crescendo che diffondeva una  sospesa beatitudine. Da quanto non vedeva la terra così dolce, immersa nella fioritura dei mandorli, forme collinari addolcite come seni di donna. Pensò: su corpus tuo est un’isula. Dalton tutto percepiva come labile impressione, uno stare bene di corta durata. Prima che tornasse il fango. La campagna digradava leggera tramata da rigagnoli di acqua d’argento, macchiata di  pozzanghere  e poi da vene ingrossate che portavano al Tyrsus, il fiume che estendeva la sua umoralità sino a quell’erba. Insenature ed anfratti  marchiavano la roccia da dove gocciolava acqua salubre su una terra già  molle. Come se il tempo si fosse  messo al normale. Dalton Clericus voleva continuare a illudersi. Guidava leggero e la macchina rispondeva come un puledro sapientemente domato, come un cavallo che pure cieco avrebbe fatto strada impervia  senza sbandare e piagarsi. Nel  punto più in alto stava il nuraghe quasi intatto, massi muschiati di arancione e in cresta quel macchione di cisto. Dalton vide altre lontane campiture, terreni in pendio arati di fresco, puntinati da macchie bianche. Erano greggi in ordinata fila, come una squadrata legione di fronte ad altre linee nere, muri a secco che tagliavano e segmentavano il verde. Poi cambiò. La stasi ridiventò consona al cielo che gonfiava nuvole già  pregne di pioggia. L’aria  tornò di fine inverno, il freddo che entrava dai finestrini aperti dell’alfa rossa. Era da tempo che quella campagna non veniva attraversata da una simile coccinella, segnale premonitore dentro un paesaggio che naturale non era più. I tralicci dell’alta tensione si fecero più fitti e insistenti. Uscivano come donchisciotteschi mulini a vento dal terreno violato, degradato e incolto, stoppie gialle invece che erba lucente. Dalton navigava tra tanti  piccoli arcipelaghi di ghiaccio formatisi nottetempo. Oltre i muri a secco apparvero ovili di turpe modernità, mucchi di plastica e ferro arrugginito. E occhi neri come aperture, profondi come orbite vuote sopra il rosso della cantoniera. Sembravano voler inghiottire chi li stava a fissare troppo a lungo.
L’ultima cosa che inquadrò prima dell’incrocio fu un obbrobrio: una specie di nuraghe moderno, colorato come una patchword. Sembrava strizzare l’occhio a “Padules”, atelier inventato e là  abbandonato dal bizzoso artista Derue, congiunto al nuraghe postomderno da uno sterrato di mezzo chilometro. Come mezzeria, radicata in corpo morto stava una linea  di blocchetti in cemento, alta quanto quella dei muri a secco neppure tanto lontani, eretti nell’Ottocento, al tempo delle Chiudende. Là dovrete passare e lì saltare  pensò Dalton Clericus immaginando l’alba fredda dell’indomani e come rivolgendosi a literados, oggetto di vendetta. Era arrivato  al bivio davanti alla cantoniera. Fece stop e  svoltò a sinistra. Duecento metri e apparve come falco in agguato il  Barbaric posada.  Lo superò di altri duecento metri e proprio sotto la stazione ferroviaria  coi muri rosa azzardò un’inversione. Andò bene. Poi fermò  la macchina senza spegnere il motore, proprio davanti al Barbaric. Gli venne alle nari odore forte di benzina. Il pomeriggio diventava sera. Da dentro il bar provenivano voci rauche  e altri soffocati sforzi gutturali. Poi strani silenzi.  Parcheggiate fuori stavano camioncini dei pastori, suv e station wagon. Sembravano anime morte, i bidoni del latte che  emergevano dai cassoni come opaco alluminio,  teste di ciminiere tronche.  Odore di caglio si mischiò a quello della benzina. Dalton accostò ancor più la macchina al muro del Barbaric. Il tempo di fotografare col cellulare la lapide di Gilberto Cesterton e ripartì. Nessuno sembrò accorgersi del movimento né della stranezza di quell’alfa rossa. Erano passati più di trent’anni da quando “la sellava”, come usa in gergo pastorale, quel tipo strano che più non si poteva, Melchoro Minero. Proprio strano, revessu, al rovescio.
Giunto all’altezza della cantoniera, continuando a guidare con una sola mano,  Dalton controllò la foto sul cellulare. La scritta della lapide c’era tutta.
Come mi conosceste cara gente
Homine sincero a cuore in mano
Prego sempre il Domìne onnipotente
Che pace venga  a questo luogo insano.
Il literado che la compose non poteva ideare di meglio, di più falso.

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