Tutela senza rete

1 Aprile 2011

Marcello Madau

Penso che l’attuale crisi del sistema ‘beni culturali’ sia più profonda della pur drammatica azione politica compiuta dal governo Berlusconi e dai suoi ministri. Una crisi radicale che richiede consapevolezza storica e coraggio progettuale molto elevati.
E’ davvero preoccupante l’attuale contingenza storico-politica. La violenta e incolta azione dei tagli sulla cultura è spia evidente di una drammatica inadeguatezza a misurarsi con i temi culturali ed alla loro stessa comprensione. C’è una classe politica che vede il bene culturale come fregio di lusso delle azioni di rappresentanza e lo usa ideologicamente e strumentalmente, sottoponendolo alle logiche della convenienza politica.
In genere lo considera, in ogni caso, come un ostacolo allo sviluppo della rendita fondiaria, edilizia e finanziaria.
La crisi però ha radici più profonde, che è necessario cogliere per poter agire e progettare di nuovo un futuro nuovamente solido e speriamo ‘glorioso’ per il nostro patrimonio culturale, perché il tradizionale sistema della tutela italiana non è più adeguato a proteggere i beni culturali e a predisporne correttamente la valorizzazione.
La causa più profonda è proprio di struttura e assieme concettuale: in poche parole ed estrema sintesi, il sistema si è basato sulla rarità ed il pregio, sia per i grandi monumenti, le focali artistiche esteticamente più ‘belle’ sia per gli elementi naturalistici di pregio. Lo sappiamo dalla straordinaria Legge 1089 del 1939, punto di arrivo di un lungo processo storico che, attraverso collezionismo ed antiquaria cortense e vaticana, consolidò gli elementi già strutturati nelle leggi dell’Ottocento (soprattutto pre-unitarie) e in particolare della n. 364 del 1909. Assieme alla 1497 del 1939, la legge per la ‘Tutela delle bellezze naturali’, che però sviluppava più debolmente, per il paesaggio, alcuni pregevoli ma più rari antecedenti maturati agli inizi del Novecento. Era ancora lontana la fondamentale definizione di paesaggio culturale data da Vittorio Sereni.
Il sistema basato su tali apparati giuridici e imperniato su vincolistica e soprintendenze, mentre metteva progressivamente a punto per tale tipo ‘selettivo’ di patrimonio una forte capacità di protezione, con la maturazione del concetto di bene culturale ed il suo ampliarsi oltre le categorie selettive di origine antiquaria e collezionistica, si trovò di fatto ad affrontare una ben maggiore consistenza del patrimonio stesso, per giunta con un apparato giuridico non sempre adeguato. Come per il paesaggio, dove le categorie introdotte dalle legge Galasso, sostanziando nelle forme le estetiche della 1497 del 1939, ne ampliavano nel 1985 gli orizzonti tutelabili, reagendo peraltro al sacco della penisola prodottosi nel dopoguerra, in specie attraverso il cosiddetto ‘boom economico’ degli anni Sessanta.
Ma i percorsi giuridici e istituzionali riflettono anche i grandi mutamenti sociali, il dibattito culturale del paese, la rivoluzione culturale di massa prodottasi attorno al Sessantotto (la prima generazione completa laureatasi senza vivere direttamente la guerra – se non quella fredda – e ad usufruire della liberalizzazione degli accessi alle facoltà universitarie). Dal ‘corpo’ del Ministero della Pubblica Istruzione nasce, fra il dicembre del 1974 e il gennaio 1975, il Ministero dei Beni Culturali e Ambientali.
Il capire come il bene culturale ‘testimonianza avente valore di civiltà’ non fosse solo l’opera d’arte o di architettura dotata di evidenti qualità estetiche, ma anche il manufatto ‘umile’ e soprattutto il complesso contestuale della documentazione della cultura materiale, anche se non decorata e di uso comune, portava ad un vertiginoso aumento delle entità da tutelare, e, parallelamente, da conoscere, con progressivo incremento di filiere di ricerca non necessariamente dedicate all’estetica del bello.
Si capisce facilmente, se prendiamo ad esempio la Sardegna, che la tutela non solo dei nuraghi più belli (alcune decine, comunque non pochi) ma di tutta la rete (8-9000 nuraghi); non solo di qualche domus de janas ma di tutte le oltre duemila, oppure al di là delle più monumentali fra le tombe di giganti, le quasi mille, non poteva che entrare velocemente in affanno.
A ciò si aggiunga una enorme lacuna strutturale come il debole riconoscimento dei beni demo-antropologici, un patrimonio immenso declinato in genere con un aggettivo in qualche soprintendenza mista: ad esempio, come in Sardegna, a fianco dell’ISRE, la ‘Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici, Artistici ed Etnoantropologici delle Province di Sassari e Nuoro’(!).
L’imponenza del patrimonio rende quindi inadeguata la vecchia e gloriosa architettura di catalogazione e protezione dello stesso, mentre produce, fra gli operatori speculativi che agiscono nel territorio e le loro rappresentanze politiche, ben distribuite, una forte pressione in direzione di una deregulation paesaggistica che oggi si traduce, facilmente, nell’attacco alla cultura tristemente in atto.
E’ un sistema che va ridiscusso, ricostruito per soddisfare le maggiori necessità di tutela che la crescita del patrimonio e il serio desiderio di identità propongono, assieme al riconoscimento dello stesso come bene comune.
Accanto a norme vincolanti su tutto il territorio dello Stato italiano, serve un ampliamento dei soggetti da coinvolgere nella tutela e nella valorizzazione, fenomeni che non vorrei concettualmente separare. Al nuovo senso di bene culturale, più rispondente alla realtà della configurazione dei beni culturali e paesaggistici del patrimonio nazionale in reti territoriali, devono quindi necessariamente corrispondere reti strutturate di tutela.
E’ indispensabile riscrivere tale scenario, affiancare in maniera organica alle Soprintendenze –una preziosa risorsa da mantenere – gli enti territoriali, dando potestà di vincolo concorrente alle Regioni. In parte già succede nei PUC con le categorie dei beni paesaggistici, fra archeologici e identitari.
In tali reti vi è di fatto, e deve trovare una sua collocazione ufficiale, il valore aggiunto importantissimo e qualificato delle professioni dei beni culturali, in particolare, fra quelle direttamente operanti nel territorio, di figure fondamentali e tuttora senza riconoscimento come gli archeologi – fatto opportunamente indicato nell’inchiesta di Roberta Carlini da poco uscita sull’Espresso, con le dichiarazioni di vari esponenti dell’Associazione Nazionale degli Archeologi – (possiamo certamente aggiungere gli storici dell’arte e i demo antropologi).
Sono figure che si sono generalmente formate dopo gli anni Settanta nella cultura del contesto e non dell’oggetto di rarità e pregio, che hanno quindi la disponibilità a cogliere e interpretare, nonostante l’offesa recata alle più recenti generazioni dal grave calo qualitativo della formazione universitaria, la realtà della rete.
Questi professionisti sono nei fatti soggetti attivi della tutela, producono presenza e conoscenza e sono in grado di operare – oggi ancora più opportunamente, visto il rifiorire della produzione di falsi oggetti e falsi studiosi – verso una ricerca ed una valorizzazione corrette e competenti.
Centocinquant’anni di unità ci pongono, nel campo della tutela, un’esigenza già incontrata: la necessità di costruire un’Italia migliore, profondamente diversa e più aderente alla sua complessità e ricchezza, nella quale i beni culturali in rete siano riconosciuti e protetti assieme alle comunità che li hanno generati, e con il loro diretto coinvolgimento.

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