Ancora Alcoa

1 Novembre 2013
Lavoro-non-solo-Alcoa
Marco Ligas

È difficile parlare dell’Alcoa e non cogliere nei comportamenti di questa azienda un cinismo che non ha fine; un cinismo prodotto dall’arroganza: possiamo chiamarla indifferentemente globalizzazione oppure mercato o anche Unione Europea e perché no anche avidità dell’impresa che ha sempre integrato il profitto con le sovvenzioni pubbliche.
Non possiamo però tenere fuori da questa vicenda le responsabilità delle forze politiche e sindacali che nel corso di questi decenni si sono rese complici, un po’ per insipienza e un po’ per interessi clientelari, delle scelte industriali realizzate nel Sulcis.
Nei giorni scorsi c’è stata a Roma l’ennesima manifestazione dei lavoratori dell’Alcoa; la rivendicazione è sempre la stessa: la riapertura della fabbrica per la ripresa della produzione dell’alluminio. Un discorso vecchio, non sappiamo più quante volte questa richiesta sia stata avanzata.
Eppure è dal 2011 che l’Alcoa ha annunciato la chiusura della fabbrica mettendo in vendita lo stabilimento, concentrando l’attività in Spagna e scegliendo il deserto arabico come luogo per aprirne uno nuovo: laggiù il costo dell’energia è quasi nullo potendo disporre di quella solare.
Da allora la storia dei lavoratori dell’Alcoa oscilla tra la cassa integrazione, le manifestazioni di protesta che si concludono puntualmente davanti a qualche ministero e gli incontri con i rappresentanti del governo cha mai assumono un atteggiamento rassicurante sulla riapertura dello stabilimento, al più rinviano le loro decisioni ad un futuro indeterminato. Dopo gli incontri tutti rientrano nell’isola e comunicano le loro valutazioni, mai coincidenti le une con le altre.
Basta una promessa perché i rappresentanti della Regione si dichiarino soddisfatti (Cappellacci è maestro nel manifestare il suo ottimismo): siamo riusciti ad impegnare il governo, dicono, perché trovi un acquirente che possa riaprire la fabbrica e riavviare le attività. Più cauti i dirigenti sindacali: la situazione non è facile, sostengono, però questa volta è probabile che riusciamo a spuntarla! Incazzati invece, e molto più realisti, i lavoratori: ancora un nulla di fatto, ammettono con delusione; a questo punto pensiamo che non ci sia più niente da fare, col nuovo anno non avremo più neppure la cassa integrazione.
Per capire la natura di questa fabbrica non bisogna dimenticare che le sue fortune in Sardegna sono state favorite anche dal lavoro dato in appalto. Questa forma contrattuale è stata usata per ottenere il massimo ribasso nelle gare. Tutti ne erano a conoscenza e tutti hanno condiviso queste procedure che prevedevano persino il cambio del nome e della ragione sociale delle aziende, il tutto finalizzato all’ottenimento degli sgravi fiscali.
Finiti questi favori e chiusa la porta dei finanziamenti pubblici, compresi i sostegni per l’uso dell’energia elettrica, l’Alcoa non ci ha pensato a lungo per andar via.
Oggi quando si discute con i lavoratori si ha modo di registrare non solo la loro rabbia per non essere riusciti a salvare la fabbrica, ma anche una forte delusione per le forme di clientelismo che si sono diffuse negli ultimi anni. Alcuni dirigenti del centro destra, con gli strumenti del ricatto e dell’assistenzialismo, hanno fatto breccia fra i lavoratori riuscendo a presentarsi come autentici difensori del lavoro e ad organizzare forme di lotta per la sopravvivenza della fabbrica. Il loro obiettivo è stato e continua ad essere quello di ottenere qualche finanziamento pubblico finalizzato al prolungamento dell’agonia dell’azienda. E così questi stessi politicanti si sentono legittimati a chiedere un voto di scambio per le prossime elezioni.
Naturalmente il degrado, come dicevamo inizialmente, non si spiega solo col ruolo assunto dal centro destra. Ci sono anche altre ragioni: in primo luogo l’inadeguatezza delle formazioni del centro sinistra che stentano a proporre politiche alternative. Le stesse organizzazioni sindacali appaiono paralizzate davanti alla dimensione della crisi, anch’esse si limitano a riproporre soluzioni che non sono adeguate al superamento del vecchio rapporto azienda/istituzioni fondato sul finanziamenti pubblico da elargire ad oltranza.
Per queste ragioni risulta indispensabile uscire dal vicolo cieco in cui ci si trova rendendo prioritari alcuni cambiamenti nella progettazione dell’attività industriale. Le formazioni politiche e sindacali che davvero intendono uscire dalla crisi devono farsi promotrici di nuovi progetti.
E potranno riuscirci soprattutto se attribuiranno alla ricerca un ruolo diverso, decisamente più incisivo e originale rispetto a quanto fatto sinora.
Già ci sono altre ipotesi che riguardano la vita delle popolazioni del Sulcis e l’ambiente naturale di questa provincia. Nel corso di questi decenni il Sulcis ha subito una vera e propria devastazione. Perché non ripartire da una politica di risanamento ambientale? È da questa constatazione che è nato il progetto del Parco geominerario che dovrebbe trasformare le miniere e le officine in musei, alberghi, archivi e percorsi turistici. Non sarebbe opportuno che tutti coloro che si battono per la rinascita di questi territori si impegnassero per la realizzazione di questo progetto?

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