A smacchia di leopardo

16 Giugno 2011

Alfonso Stiglitz

“Smacchiare i leopardi” è forse lo slogan più riuscito della nuova ventata politica, perché pone l’attenzione sull’uso del linguaggio, sull’importanza dei modi e delle forme con le quali una proposta viene avanzata. Sul tema della cultura e del linguaggio mi permetto di rendere pubbliche cinque riflessioni, seppure non richieste, per il Sindaco di Cagliari.
I termini sui quali voglio esercitare la mia prosa sono quelli che da anni aleggiano nel dibattito politico e culturale cagliaritano, che declino in ordine alfabetico.
BETILE. Un nome già “sgrammaticato” nella forma, frutto di un dialettismo populista, esattamente come il suo progetto. Un contenitore, peraltro già visto altrove nelle sue varianti, volto a esaltare il progettista e il committente, secondo una visione più novecentesca che adeguata ai tempi. Ma è soprattutto l’idea di un museo dell’arte nuragica e contemporanea che, lungi dal proporsi come provocazione culturale, sembra rispecchiare la visione dei vecchi e non più rimpianti musei dell’arte primitiva, di coloniale memoria, nei quali l’arte dei popoli senza storia era grande in quanto fatto estetico da contemplare, al di fuori di qualsiasi contesto storico: i popoli primitivi non hanno storia per definizione. Museo come luogo di accentramento culturale, avulso dal territorio, che anzi intende spogliare dei propri contesti, in grado di creare terra bruciata nel panorama museografico sardo. Una struttura che ripropone quel ruolo di antagonista, di Crono mangiatutto, che ha sempre accompagnato l’immagine di Cagliari nel resto dell’isola.
DEGRADO e ABBANDONO. In una delle interviste il neo-Sindaco, Massimo Zedda, garantendo la fermezza nella decisione di smontare l’ignobile legnaia dell’Anfiteatro ha aggiunto, ahimé: “La mia prima preoccupazione è non lasciare l’Anfiteatro in stato di abbandono” (La Nuova Sardegna del 7 giugno scorso). Espressione infelice, al di là delle intenzioni di chi l’ha pronunciata, e che dovrebbe essere bandita dal nuovo linguaggio del Comune, se si vuole veramente rinnovare. La frase è stata infatti tipica della mentalità cementificatoria che ha caratterizzato l’urbanistica cagliaritana, per cui la colata di cemento avrebbe salvato Tuvixeddu dall’assalto devastante delle “erbacce”, dei rifiuti e dei topi, così come la legnaia, così come il nuovo palazzo di via Milano, così come le torri di Zuncheddu, tutti spazi non più “abbandonati”. In altre parole qualche rifiuto, qualche spelacchiato roditore ed erbe, di questi tempi anche fiorite, sarebbero i veri nemici della città. Eppure basterebbe una piccola manutenzione a basso costo per rendere decorosi i luoghi; i palazzi non si possono tagliare, le erbe si. L’alternativa non è tra cemento o eventi spettacolari e degrado, l’alternativa è tra consumo della città, edificatorio o culturale, e uso collettivo degli spazi, cultura diffusa, consapevolezza delle stratificazioni delle nostre identità.
EVENTI. Ormai non esiste la cultura, ma solo ciò che può richiamare folle adoranti, tali da creare un evento, un momento eccezionale che a furia di ripetersi non lo è più. Mi piacerebbe una politica culturale più attenta alla città, diffusa e non concentrata, quotidiana e non evenemenziale (scusate il francesismo). Meno eventi ma luoghi diffusi, attività costanti in tutto lo spazio urbano, a partire dai quartieri più degradati: una casa culturale in ogni quartiere. Luoghi nei quali la cultura non venga dispensata dall’alto dal dominatore di turno, secondo il dirigismo politico di un tempo; ma luoghi nei quali al cittadino siano forniti gli strumenti e gli spazi per fare cultura, per accedere all’informazione. Poi anche gli eventi, ma come extra non come normalità.
MANTX e PANTX. Surreali acronimi per cercare di rendere moderno, alla moda, un giardino condominiale: se andasse in porto il mega progetto edificatorio, l’intero circuito della necropoli di Tuvixeddu-Tuvumannu verrebbe circondato da un’ininterrotta linea di case e palazzi, con l’eccezione di un qualche varco per l’accesso al Parco. Su Tuvixeddu ho fatto già molti interventi su questo giornale e non voglio ripetermi, ma solo accennare al problema del Parco. È stato progettato come un giardino, con scarsa sensibilità nei confronti del paesaggio archeologico, utilizzato come sfondo e non come protagonista. Il Parco c’è, lo si apra per iniziare a trasformarlo da giardino a vero e proprio parco archeologico, come dovrebbe essere: eliminando le fioriere, ad esempio, ridando la vista alle cave, affrontando il problema della destinazione e uso del villino Mulas-Mameli, in piena area archeologica: parte integrante del patrimonio culturale o salone per festini matrimoniali? Gli spunti sarebbero tanti, rileggiamo quel progetto, il Comune ha il potere e gli strumenti per farlo e per accelerare l’apertura al pubblico degli spazi già sistemati e avviare le procedure per l’estensione del Parco all’intera area archeologica.
VUOTI URBANI. Una delle più sinistre definizioni che negli ultimi anni sono state utilizzate a Cagliari per motivare la cementificazione. Ogni vuoto è pieno di erbacce, magari di “tossici”, quindi riempiamolo con un bel palazzo. Vedi quello in corso di ultimazione nella cava giù da viale Buoncammino. Trasformiamo questa definizione e parliamo di spazi comuni, perché tali sono diventati, spazi distribuiti su tutti i quartieri, da riempire di idee, di cultura, di senso comune e, in molti casi da riscoprire: il parcheggio davanti alla Casa dello studente ad esempio potrebbe ridarci un pezzo di Cagliari preistorica. Nei quartieri circolano molte idee in proposito, diamogli voce.
Parole, ognuna delle quali parlanti, tutt’altro che neutrali: un problema di narrazioni, per citare un autorevole politico vicino al Sindaco. Ma si può narrare senza dire niente, se non produrre il suono della propria voce, o raccontare per segnare il proprio cammino, lasciando tracce nelle quali possiamo riconoscerci. Non l’ha detto nessuno, ma suona bene.

PS. Una mera curiosità (curiosità, lo giuro), in questi anni di straordinari indotti milionari (nel senso di euro) degli eventi spettacolari avvenuti nell’Anfiteatro, quanto è entrato nelle casse del Comune e, se qualcosa è entrato, quanto di questo è stato reinvestito per la conservazione e tutela del monumento?

6 Commenti a “A smacchia di leopardo”

  1. Andrea Nurcis scrive:

    Non conosco nei dettagli il progetto del cosidetto museo “Betile”, ma le considerazioni del professor Stiglitz mi sembrano troppo severe. Vorrei sottolineare il fatto che anche l’arte contemporanea, come l’archeologia, non è semplicemente “un fatto estetico da contemplare”. Penso che le due discipline, il contemporaneo e l’archeologia, specialmente in Sardegna in cui la valenza identitaria è forte e si rispecchia soprattutto nel passato, possano giustamente convivere insieme. Le forme artistiche più avanzate, le avanguardie storiche del novecento e le neoavanguardie del dopoguerra, hanno sempre avuto uno sguardo molto profondo verso le culture primitive o più antiche. Ritengo sia molto interessante e importante che queste due discipline trovino, anche a livello di ricerca espositiva e scientifica un confronto diretto. Sarebbe interessante anche che in Sardegna si aprisse un dibattito tra archeologi, storici dell’arte contemporanea e artisti. La scienza, e quindi anche l’archeologia, e soprattutto l’arte, che non considero una disciplina inferiore a quelle scientifiche hanno sempre bisogno di confrontarsi con l’ immaginazione. Chiuderle nei ghetti accademici è sempre la cosa più negativa.

  2. Alfonso Stiglitz scrive:

    Gentile Andrea,
    intervengo solo per chiarire un equivoco, dovuto alla necessità di sintetizzare in brevi articoli temi complessi. Non sono contrario al confronto tra archeologia e arte contemporanea, anzi sono per le contaminazioni e anche per le provocazioni culturali: in quel progetto mancano entrambe, mentre brilla il gigantismo e il centralismo, che con arte contemporanea e archeologia poco hanno a che fare. Cordialmente, Alfonso Stiglitz.

  3. Omar Onnis scrive:

    Trovo molto convincente l’impostazione e i contenuti dell’articolo.
    Il Betile nasce vecchio. L’ideologia su cui si basa è quasi ottocentesca. L’impatto sulla Sardegna sarebbe molto più negativo che positivo. Molto meglio valorizzare la nostra immensa ricchezza storico-archeologica in loco, magari agendo sull’esempio del consorzio Corona Arrubia, generando economia dalla tutela e dal racconto del nostro passato laddove si è prodotto. Sarebbe anche una risposta all’incipiente spopolamento e alla perdita di intelligenze e di risorse di tanti nostri centri abitati. Una impostazione siffatta consentirebbe anche di “mettere in rete” l’archeologia e la storia con le altre potenzialità – materiali e immateriali – del territorio: eno-gastronomia, artigianato, ricezione turistica, cultura. La retorica di “Cagliari capitale” è dannosa quanto la condizione attuale di Cagliari inconsapevole provincia televisiva italiana. Cagliari può essere la porta della Sardegna (una delle porte) o una grossa zecca attaccata al cane moribondo. Per ora somiglia molto di più alla seconda, coerentemente con la sua storia plurisecolare. Non credo che Zedda e i suoi tutori saranno in grado di cambiare la situazione.

  4. Giulio Cherchi scrive:

    Degrado e Abbandono.
    Sarebbe ora di considerare che a Cagliari non c’è solo Castello e via Dante, ma esistono S.Avendrace, Is Mirrionisi, su planu, Pirri, Genneruxi, etc. etc.
    Ridurre tutto ad Anfiteatro, Museo e Tuvixeddu, nella politica urbanistica di Cagliari è fortemente limitativo.

  5. Andrea Nurcis scrive:

    Dovrò sicuramente approfondire la conoscenza del progetto del museo Betile. D’altro canto Cagliari è comunque una grande città, una capitale con una posizione geografica e una storia importanti. Potrebbe avere un ruolo centrale all’interno dei cambiamenti che stanno sconvolgendo l’ordine geopolitico del nord africa e del mediterraneo. E’ all’interno di questo contesto che secondo me andrebbe immaginata la nuova politica per Cagliari, che andrebbe elaborato un progetto per Tuvixeddu ecc…

  6. Annamaria Janin scrive:

    Concordo con Stiglitz sulla necessità di un reale rinnovamento culturale, a partire dall’abbandono di comportamenti e slogan linguistici usurati. A me, per esempio, la parola “evento” causa immediate crisi di orticaria. E non sopporto proprio più le folle plaudenti che accorrono festanti per qualsiasi evento pur di obbedire passivamente ai dettami che vengono reiteratammente imposti ( da chi? per che cosa? Poco importa!). Un esempio della totale passività pecoreccia delle folle affamate di eventi culturali: i “Monumenti Aperti” che ogni anno richiamano in Castello (abito lì, e posso osservare tutto con ricorrente sgomento) fiumane di gente che pazientemente si mette in coda per visitare soprattutto – chissà perché – il Palazzo Viceregio (ora promosso a Regio). Mi limito a questo esempio perché ciò che accade lì è veramente surreale: folle sudate e stremate che attendono eroicamente ore e ore sotto un sole implacabile per entrare nel Palazzo, che è sempre aperto al pubblico e si potrebbe vedere (supponendo che ne valga davvero la pena) tranquillamente tutti i santi giorni in santa pace. Ma tant’è…….. la Cultuuuuuura!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

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