Ancora la Carbosulcis

1 Aprile 2013
Marco Ligas
La Carbosulcis, nel bene e nel male, continua a far parlare di sé. In questi giorni il Consiglio regionale ha approvato la legge che salva gli stipendi di 500 lavoratori della miniera di  Nuraxi Figus. Decisione importante che tante famiglie apprezzeranno anche se avrà effetti limitati nel tempo. Tuttavia nel corso del dibattito consiliare in tutti gli schieramenti si sono registrate voci discordanti.
È un segnale del venir meno della centralità della Carbosulcis, come alcuni consiglieri hanno sottolineato?
In realtà l’aspetto meno rassicurante delle diversità emerse nel corso delle votazioni non riguarda tanto l’opportunità dell’intervento a sostegno dei lavoratori, sebbene ritenuto da alcuni esclusivamente assistenziale, ma la conflittualità tra consiglieri regionali appartenenti ad aree geografiche differenti. Non a caso alcuni hanno ribadito, forse in modo ingeneroso, come le crisi che investono il Sulcis ricevano sempre una particolare attenzione e vengano affrontate persino con misure di dubbia utilità non influendo sulle cause strutturali del declino industriale. La stessa attenzione invece non verrebbe riservata ad altre aree dell’isola dove i problemi della disoccupazione non vengono affrontati neppure con misure congiunturali.
Non è una disputa nobile quella emersa nella seduta del Consiglio regionale: anche in questa circostanza sono prevalsi gli interessi clientelari dei singoli, le esigenze funzionali al consolidamento del rapporto col proprio elettorato al fine di tutelare il posto di potere all’interno delle istituzioni; purtroppo è su queste questioni che si manifesta l’impegno prevalente della nostra classe dirigente nel Consiglio regionale: siamo ben lontani dalla tutela degli interessi del popolo sardo!
Tutto il resto, a partire dalla necessità di ripensare modelli che promuovano attività produttive diverse, capaci di rispondere ai bisogni reali delle popolazioni, rimane un optional; tutt’al più quando la rabbia popolare cresce e rischia di diventare incontrollabile, si trovano i palliativi che attraverso l’uso e lo spreco del denaro pubblico riescono a contenere le contestazioni di chi viene spinto verso la povertà.
E così si continua ad eludere, e chissà sino a quando, il paradigma che possa collegare il bisogno di occupazione con la sostenibilità ambientale. Ci si allontana da questa prospettiva nonostante appaia l’unica soluzione capace di garantire, e comunque di praticare, alcuni obiettivi fondamentali alternativi alle politiche economiche e sociali attuali: dall’uso equilibrato del territorio ad una nuova ripartizione delle risorse, dalla sollecitazione e il recupero delle capacità individuali alla ridistribuzione della ricchezza.
C’è chi sostiene (Guido Viale) che la transizione verso questo nuovo paradigma non possa essere governata dall’alto o da un “centro”, perché  si fonda, tra le altre cose, sulla interconnessione orizzontale sia degli impianti produttivi che degli interventi.
Tutto ciò è vero ma ritengo che anche nella fase di transizione sia indispensabile un centro che sappia accogliere e coordinare le esigenze dei territori periferici, dall’agricoltura a Km0 alla salvaguardia ambientale, dall’autosufficienza energetica alla tutela dei beni comuni, tutte occasioni fondamentali per la creazione di attività lavorative. Certo è indispensabile non solo l’affermazione del concetto di partecipazione ma la sua reale concretizzazione.
E noi in Sardegna abbiamo modo di verificare costantemente come la partecipazione dei cittadini alle scelte che li riguardano rappresenti ancora un aspetto marginale,  spesso del tutto trascurato. Basta pensare alla costruzione delle serre fotovoltaiche che nel giro di pochi anni si sono diffuse come funghi nel nostro territorio, devastandolo senza produrre alcun beneficio sia per quanto riguarda la nuova occupazione sia nell’uso delle risorse energetiche prodotte.
Recentemente Rossana Rossanda chiedeva a Guido Viale chi dovesse avviare le politiche dei nuovi modelli produttivi.
Già, chi deve e chi può portare avanti questo progetto? È una domanda che rischia di restare senza risposta; c’è chi sostiene (a destra) che non ce n’è bisogno perché le cose vanno bene così; nell’altro campo (a sinistra) di volta in volta le formazioni politiche, i sindacati e le componenti sociali si scambiano colpe e responsabilità, ciascuna attribuendo agli altri le cause dell’insuccesso, naturalmente salvando sé stessi.
È comprensibile come le responsabilità dei ritardi non possano essere suddivise equamente perché diversi sono i ruoli e la consistenza dei vari soggetti. Ma è altrettanto evidente che l’affermazione di un nuovo progetto dipenderà dal convincimento che ciascuno apporterà, sulla base delle proprie scelte e dell’impegno che intende investire. La forza delle riflessioni e delle idee può superare gli steccati che spesso vengono innalzati per giustificare la rigidità di ruoli che bloccano qualsiasi cambiamento.

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