Autonomie, autogoverno e federalismo nell’autunno della democrazia italiana

17 Maggio 2023

[Fernando Codonesu]

Oggi chi è il sovrano e dove sta la sovranità? Da tempo si parla giustamente di inverno della natalità in Italia con tutto quel che ne consegue.

Inverno demografico, si dice. E fa rima con un’altra espressione altrettanto pesante e foriera di implicazioni: l’autunno democratico. Qualcuno dirà Non siamo all’inverno, ma ci stiamo comunque arrivando a grandi passi. La letteratura un po’ ci aiuta. Una volta era L’inverno del nostro scontento.

Poi il grande scrittore portoghese José Saramago ha rappresentato il nostro presente elettorale nel rapporto perverso con il potere con i due romanzi Saggio sulla lucidità e Cecità ai quali rimando, con un racconto incentrato sul grande complotto delle “schede bianche”, quale metafora del voto negli stati cosiddetti moderni del nostro tempo.

Ma la realtà odierna, non la finzione letteraria, anche se molto somigliante con la realtà fattuale, è ben peggiore se leggiamo con la dovuta attenzione i dati dell’affluenza ai seggi nelle elezioni del 14/15 maggio. No, nessun complotto delle schede bianche, da tempo semplicemente e ben più gravemente non si vota proprio: non ci si crede più.

Una demografia calante al punto che si parla di irreversibilità del processo, a meno di auspicabili forti flussi immigratori governati da processi e procedure legali e sicure, tutt’altro che all’orizzonte prossimo venturo, o grandi piani di sostegno alle famiglie, a partire dal lavoro per i giovani e dalla presenza di tutti i servizi necessari per poter mettere su casa e famiglia ad ogni latitudine del nostro paese.

Meno indagata, appunto, se non in qualche rivista e circolo strettamente specialistico, la questione della democrazia e della sovranità ai vari livelli rappresentativi della volontà popolare, ad iniziare da quello più alto, lo Stato, in un periodo ormai ventennale di progressiva sfiducia e disaffezione della partecipazione al voto.

E’ così, è un dato di fatto, in Italia sono di più le persone che non votano per svariate ragioni. Innanzitutto sicuramente c’è l’impossibilità di scelta dei propri rappresentanti in quanto i candidati sono sempre oggetto di trattativa e scelta degli oligarchi – qualcuno li chiama anche capi bastone – dei vari partiti e raggruppamenti in campo.

Il voto non è più qui, è altrove. Parafrasando il Pascoli potrei dire: io non vivo altrove e sento che intorno … Non sono nate le viole, e chissà quando rinasceranno.

Il perché è tremendamente semplice.

Nessuna scelta trasparente e diretta dei candidati da parte della cittadinanza.

Perché un elettore dovrebbe ratificare scelte effettuate nelle segrete stanze, frutto di alchimie e mirate sempre ad interessi di gruppo o di parte, ben lontane dal rappresentare il bene pubblico?

E i partiti, quelli attuali, non pare che rispondano proprio a quanto previsto dall’art. 49 della Costituzione nella misura in cui da 30 anni a questa parte sembra che disputino tra loro più per allontanare i cittadini dalla partecipazione, facendo venir meno la base stessa della democrazia e della sovranità all’interno di questo sistema, e aprendo le porte agli interessi lobbistici e di parte in quanto privi del finanziamento pubblico, a seguito del grande scandalo sistemico dovuto alla corruzione, reso pubblico all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso.

E quando siamo stati chiamati a votare per qualche referendum, come quello sulle province, quegli stessi partiti proponenti la loro abolizione le hanno riportate in vita: da enti morti a enti risorti!

Quando si impegnano i partiti fanno miracoli.

O come l’altro sul nucleare da fissione, ora di ritorno perché ribattezzato di quarta generazione con la benedizione della Commissione europea, ancorché nel nome dell’interesse della Francia.

E noi a seguire in processione ed aspettare la benedizione dell’officiante romano di turno al di qua del Tevere, diciamo pure di stanza a Palazzo Chigi, giacché l’altro, quello sì serio e grande, non c’entra nulla con queste scelte e se potesse, agli sciagurati che hanno riproposto il nucleare e  gli altri combustibili fossili, gli darebbe pure un gran ceffone avendone ben scritto nella Laudato si’.

E sulle elezioni, non si vota più non solo alle politiche ma anche nelle comunali, quelle più vicine alle esigenze dei cittadini. Eh, già, quelle che qualcuno vorrebbe traslare direttamente sulla scala nazionale con l’elezione del cosiddetto Sindaco d’Italia nel nome della stabilità dell’azione di governo.

Da quando c’è l’elezione diretta del Sindaco ad oggi vi è stato un calo di votanti fino al 20%. Nel 1993 aveva votato il 79% degli aventi diritto al voto, il 14/15 maggio ha votato il 59%.

Il partito del non voto era al 21%, oggi è oltre il 40%.

E’ vero, l’elezione diretta del Sindaco dà stabilità all’amministrazione comunale, ma allo stesso tempo, e questo non può essere accettato, vanifica, mortifica, rende irrilevante e annulla il ruolo dell’opposizione.

Il Sindaco vincente prende tutto, anche il banco!

I numeri relativi alle elezioni politiche e ai referendum sono ancora più gravi e impietosi.

Il partito del Non voto, che semplicisticamente viene chiamato dell’astensione, costituito però da cittadini che coscientemente scelgono di non votare, nel nostro paese è il più grande da circa tre decenni.

Peraltro, ogni meccanismo elettorale che prevede un premio di maggioranza, come quelli previsti dall’attuale legge elettorale nazionale, quella della regione Sardegna e prima ancora quelle comunali relativizzano il peso del voto: non siamo più uguali. Il valore del voto del singolo cittadino al raggruppamento che diventa maggioranza è più alto di quello dato al raggruppamento di  minoranza.

Un controsenso se si ragiona sull’art. 3 della Costituzione: “Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. …”.

Da tempo il voto non è più uguale e anche sulla qualificazione di “libero” ci sarebbe molto da dire, ma questo esula dallo scopo di questo articolo.

Ci sono ovviamente anche altre motivazioni che hanno allontanato la cittadinanza dal voto, ma le ragioni più squisitamente politiche sono quelle appena delineate.

Ma cosa comporta tutto questo come riflesso sulla sovranità?

Dal mio punto di vista, moltissimo.

Se è vero, come è vero, che per la Costituzione italiana la sovranità non è più nel (del) sovrano ma è nel (del) popolo costituente e che il popolo è costituente nel momento in cui si esprime con il voto eleggendo i propri rappresentanti ai diversi livelli, allora le elezioni rappresentano il termometro e il termostato della democrazia italiana. Allora il fatto che il risultato ultimo sia che da tempo si viene eletti da “una minoranza” conduce alla ratifica di un fatto singolare: c’è una minoranza che governa lo Stato o che amministra la Regione, il Comune e gli altri ambiti di rappresentanza nei quali si esplica la sovranità popolare.

Si, sono totalmente d’accordo sul fatto che la sovranità sia insita nella rappresentanza, allora da un punto di vista logico, non me ne vorranno i giuristi, più che di popolo sovrano dovremmo essere più rigorosi perché dovremmo parlare di “cittadini sovrani”.

Già, perché anche su questo punto bisogna mettersi d’accordo.

Se la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato (art. 114 Cost., come modificato dalla legge 3 del 2001), la deduzione è semplice: la sovranità è in capo allo Stato nel rapporto con gli altri Stati, è in capo a tutti gli altri Enti nei rapporti interni e nelle relazioni tra Stato ed Enti Locali.

A me pare che con questo articolo finalmente la Costituzione riconosce che le autonomie locali sono “enti esponenziali delle comunità territoriali di riferimento”, come si ama dire in linguaggio giuridico-costituzionale. E da qui deriva anche che per poter esprimere a pieno il proprio ruolo le autonomie locali devono realizzare l’autodeterminazione su alcune materie che non possono essere più gestite concorrenzialmente con lo Stato. Il principio di autodeterminazione delle autonomie locali si realizza all’interno della repubblica una e indivisibile, diciamo pure all’interno dell’ordinamento, con quello che è chiamato autogoverno.

Infatti, bisogna interrogarsi sul punto perché da un lato si è fatto un significativo passo avanti con l’art. 114 e con la giurisdizione sul regionalismo a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, ma se si guarda al contenzioso tra Regioni/Stato sulle tante materie di intervento governativo in questi decenni a partire dall’energia (concorrente) e finire con l’urbanistica (solo regionale), l’intervento del legislatore statale, poi prontamente ratificato dalla Corte (le eccezioni non fanno la regola) è sempre stato quello di un ridimensionamento del diritto regionale, per certi aspetti facendo venire meno l’ispirazione di fondo della Carta basata sulle autonomie locali e specificatamente sulle regioni, in analogia con la costituzione spagnola, unico altro modello simile in Europa.

Per esempio il diritto regionale sull’urbanistica, che è materia esclusivamente regionale, è comunque compresso e limitato anche con maglie estremamente strette perché tocca aspetti del Governo del territorio (concorrente), dell’Ambiente (Stato), del Paesaggio (la tutela è dello Stato, la fruizione e gestione pur regionali sono concorrenti di fatto), i Trasporti (concorrenti), ecc.

Anche su questo punto allora vale quanto detto prima, se vota una minoranza, la maggioranza che deriva da questa minoranza di votanti mina il principio sostanziale su cui si regge l’ordinamento repubblicano e la rappresentazione della sovranità popolare, o quanto meno lo mette in grave pregiudizio.

Infatti, nel costituzionalismo è ampiamente riconosciuto che il popolo è costituente se vale il “principio di maggioranza nella rappresentanza”.

Il principio di maggioranza presuppone che proprio la maggioranza dei cittadini “sovrani” e quindi “liberi” si esprimano nel voto: solo in questo caso diventano costituenti e dal mio punto di vista si può parlare per estensione di “popolo sovrano”.

Non mi pare che sia accettato o pensato nel diritto costituzionale, ma se lo fosse un’impostazione di tale tipo andrebbe velocemente cambiata, che sia una minoranza ad essere riconosciuta come popolo costituente. Considerato che il principio di maggioranza non c’è più, di cosa parliamo?

Il fatto che la partecipazione o meno sia frutto di libera scelta dal parte del cittadino non  ci deve trarre in inganno: il grande partito dell’astensione non partecipa al voto perché per le motivazioni già espresse ne è dimostrata da tempo l’inutilità.

La nostra, mi vien da dire quella di gran parte dei paesi occidentali ad incominciare dagli USA, è ancora democrazia o possiamo parlare di post democrazia, democratura (pur senza oligarchi alla russa), regime di una minoranza “legittimata” comunque dal voto?

Insomma, molte cose e concetti vanno rianalizzati e ripensati: guai ad accontentarci dello status quo! E aggiungo ancora una considerazione essenziale sullo Stato centrale quale garante del diritto di cittadinanza, ovvero dell’insieme dei diritti che permettono alla società di dispiegare tutte le proprie potenzialità nell’equilibrio dei diritti e dei doveri di ciascuno di noi.

E’ lo Stato che garantisce la cittadinanza, ma sono i cittadini che danno allo Stato la propria ragione d’essere. Si tratta di una corrispondenza biunivoca e senza l’uno, lo Stato, non c’è il cittadino, ma allo stesso tempo, senza il cittadino non c’è lo Stato e men che meno c’è la sovranità a tutti i livelli di rappresentanza.

Allora lo Stato ci deve mettere nelle condizioni di dispiegare pienamente i diritti della cittadinanza. Meglio ancora sarebbe godere pienamente dei diritti della cittadinanza europea, convinto come sono che una federazione europea con una sua costituzione, possa garantire al meglio la cittadinanza del singolo.

Ecco perché assume grande rilevanza ora più di prima l’approvazione di una legge elettorale di tipo proporzionale, come è quella europea, estesa alle elezioni politiche e agli altri livelli elettorali.

E, allo stesso tempo, è per le considerazioni su esposte che non ritengo accettabile il principio della supremazia dello Stato centrale anche sulle materie di stretta competenza regionale, perché questo principio di fatto sancisce la compressione, l’insussistenza, l’irrilevanza e l’inesistenza dei diritti delle autonomie locali.

Quanto detto, e si tratta di fatti e non di opinioni,  dimostra che l’attuazione della Costituzione in questi decenni non è stata e non è favorevole allo sviluppo delle autonomie locali.

Anche per queste semplici ragioni sono favorevole all’attuazione dell’autogoverno, in alcune specifiche materie oggi concorrenti con lo Stato, da parte della Regione Sardegna e alla prospettiva del federalismo statale come previsto dalle costituzioni della Svizzera, della Germania e degli USA, che non mi risulta abbiano problemi in quanto a “unicità e indivisibilità”, come ripetutamente ed erroneamente ricordato dai sostenitori dello “status quo” nel dibattito giuridico e politico italiano.

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