Carceri: Ha da passà ‘a nuttata… ma se quella nottata non finisce mai?

2 Gennaio 2024

Foto di Roberto Pili

[Ornella Favero]

Ci siamo illusi per anni, noi volontari che operiamo nelle carceri, che “dovesse passare la nottata”, sentivamo che “il malato era grave” ma speravamo che qualche cosa di buono potesse però ancora succedere.

Papa Francesco ha affermato con forza che non ci può essere pena senza una finestra di speranza, sarebbe importante che dicesse anche quanto è doppiamente sadico socchiudere quella finestra, e poi richiuderla brutalmente. E invece è successo e succede di continuo per le carceri, è successo con l’ergastolo ostativo cacciato dalla porta dalla Corte Costituzionale e rientrato dalla finestra in una legge, che rende quasi impossibile l’accesso ai benefici per gli ergastolani ostativi che non hanno collaborato con la giustizia. È successo con il sovraffollamento, per cui la Corte europea ci aveva imposto di dare delle risposte, e delle risposte, per quanto parziali, erano state date, ma ora il sovraffollamento sta montando senza sosta e di risposte non se ne vedono.

Scrive la madre di un detenuto “Sono la mamma di G. in carcere a Verona, da due anni e mezzo riflettevo che queste festività in questo periodo della mia vita mi farebbero un gran favore se sparissero dal calendario. Le accompagna una tristezza infinita!”. Ecco, in questi giorni di festa, che in carcere per le persone detenute, e fuori per i loro famigliari significano solo “una tristezza infinita”, mi viene in mente che nella prima sentenza della Corte Europea rispetto al sovraffollamento nelle carceri italiane, Sulejmanovic contro Italia, il giudice spagnolo Sajó aveva rilevato che, nel caso in esame, “non è stata la mancanza di spazio nella cella a costituire di per sé un trattamento inumano e degradante, quanto la mancata adozione da parte dello Stato membro di misure compensative supplementari volte ad attenuare le condizioni estremamente gravose derivanti dalla situazione di sovrappopolazione del carcere”. Possibile allora che nelle nostre carceri non si possa per lo meno pensare a delle “misure compensative”?

Ricordo che alcuni anni fa l’allora direttrice del carcere di Bollate, Lucia Castellano, in un incontro nella redazione di Ristretti Orizzonti, ci aveva detto che nel suo istituto lei applicava l’Ordinamento “allargando al massimo le maglie di quello che è consentito”.

Ecco, in questo finale dell’anno drammatico, abbiamo letto analisi importanti sulla catastrofe delle carceri, sulle politiche che puntano a cercare consenso con l’illusione che più galera equivalga a più sicurezza. La situazione è pesantissima, e proporre piccoli rimedi sembra velleitario, ma il Volontariato ha il coraggio di continuare a combattere, con insistenza quasi ossessiva, non in nome di grandi sogni ma per “maglie della rete dell’Ordinamento allargate al massimo”, che riguardano prima di tutto gli affetti. Misure che potrebbero essere concesse da subito, senza dover cambiare la legge:

– la telefonata quotidiana per tutti, anche per i detenuti di Alta Sicurezza, che è una boccata di ossigeno e una “protezione” concreta dal rischio suicidio (a Padova il direttore della Casa di reclusione alla fine ha deciso di mantenere, anche nel dopo Covid, la telefonata quotidiana per i detenuti comuni, ed è già un primo passo importante);

– i colloqui con le cosiddette “terze persone”, che ora sono concessi a discrezione del direttore, sulla base di “ragionevoli motivi”. Ma perché una persona adulta in carcere deve far decidere a un estraneo se i suoi motivi per incontrare un amico, una persona cara, uno che è stato suo collega di lavoro sono “ragionevoli”? E perché chiamare “terza persona” una persona che, come mi ha detto un giovanissimo detenuto, “per me è la persona prima e più importante”? Non è ora di liberalizzare i colloqui con le “persone care”, chiamiamole così, che non sono “parenti entro il quarto grado”, ma contano nella mia vita, e delle quali voglio essere io detenuto a stabilire l’importanza?

– Concedere tutti i colloqui in più che è possibile, oltre alle sei misere ore mensili, e per esempio l’opportunità di pranzare insieme alcune volte all’anno, e di avere quindi dei momenti di impagabile “quasi normalità”.

L’arcivescovo di Milano Mario Delpini, nel suo tradizionale discorso alla città, quest’anno ha invitato a essere non “seminatori di paura”, ma “seminatori di fiducia”. Io in questi anni ho sentito molto parlare di speranza, ma oggi rispetto a queste carceri e a queste politiche per la sicurezza, invitare a sperare sembra un esercizio sterile di ottimismo incosciente. Parlare di “fiducia” invece è diverso, perché impone a ognuno di noi di fare la sua parte, di assumersi le sue responsabilità, di avere un atteggiamento fiducioso anche quando l’esperienza ti porterebbe ad avere uno sguardo più disincantato e più cinico.

Nella Giustizia riparativa, si usa spesso il termine “equiprossimi”: il mediatore non è “equidistante”, è piuttosto “equiprossimo” rispetto alla vittima e all’autore di reato. È una parola che voglio prendere a prestito per fare un augurio: che il Volontariato diventi davvero “seminatore di fiducia” e che riesca ad avvicinare, a far sentire quindi un po’ “equiprossima” a chi abita le carceri, quella società dove tutti pensano di poter essere vittime di un reato, e quasi nessuno vuole riconoscere che la possibilità di sbagliare, di fare del male, di tradire la fiducia è di tutti, e nessuno si dovrebbe sentire del tutto e sicuramente innocente. Agnese Moro, a cui hanno ucciso il padre negli anni bui della lotta armata, ci ricorda sempre che “Non c’è nessuna persona che noi vogliamo che si perda, il cuore della nostra Costituzione è la preziosità di ogni persona”.

Ornella Favero è la Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti. L”articolo è stato pubblicato oggi su Ristretti.org

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