Contorni: L’onnipotenza del dire

16 Maggio 2016
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Giulio Angioni

All’evangelista Giovanni e alla sua nozione teologica di un primordiale e creatore logos (parola, linguaggio, discorso, senso), Goethe obietta la sua nozione di una altrettanto primordiale Tat (azione, fare), e nel Novecento l’artista-filosofo Henri Focillon obietta a entrambi la maggiore ricchezza vitale e conoscitiva del dire e del fare uniti e non dislocati a comandare sul resto della vita umana.

Si può così capire meglio che non è possibile riscontrare dei limiti o delle superiorità a una qualunque lingua umana rispetto ad altre, ma semmai una “superiorità” storicamente determinata di coloro che le parlano, con le loro finitezze e il loro potere e prestigio. Resta comunque fermo e assodato che qualunque lingua o dialetto, qualunque parlata umana può dire all’infinito di infiniti argomenti, se messa alla prova: possiede cioè l’universalità o onnipotenza semantica. Hanno molte ragioni i linguisti e gli antropologi quando evidenziano queste possibilità, forse esclusive dei linguaggi umani e quindi distintive dell’uomo. Ma è anche utile ribadire che l’universalità o onnipotenza semantica si capisce meglio se la si vede in connessione sinergica con l’onnipotenza del fare e anche del sentire, senza ipostatizzarla in un primato semiotico alla maniera di Giovanni, o di contrapporla a un primato tecnico alla maniera di Goethe.

Se tutto è stato già detto in mille modi, tutto resta ancora da dire, tanto quanto resta ancora da fare e da sentire. É umana capacità sia del dire come del fare e del sentire ciò che tante volte si è attribuito a Dio onnipotente e onnisciente. Dio però ci ha creato a sua immagine e somiglianza, o viceversa, per cui l’onniscienza, l’immensità e l’onnipotenza di Dio o sono un dono divino fatto all’uomo o sono la teologizzazione di potenzialità umane che si realizzano in illimitate repliche nel fare come nel dire e nel sentire. La tecnicità, la possibilità di manipolare il mondo per ottenere ciò che serve a determinati uomini implicati in un determinato modo di vivere, nonostante i pessimismi antitecnologici dei nostri tempi, è più produttivo pensarla sorella equipotente della segnicità, della quale più facilmente pensiamo potenzialità illimitate. La più nobile biblioteca non è qualitativamente né funzionalmente diversa dalla più umile rimessa di attrezzi di lavoro, ma sono ambedue risultati di una medesima capacità umana.

O, ritentando un prologo in terra in termini più evolutivi, se l’uomo è uomo da quando, secondo un ragionevole stereotipo paletnologico, ha scheggiato il primo ciottolo per farne uno strumento del suo agire nel mondo, più sicuramente è uomo da quando ha intuito o pensato di poter manipolare il mondo con un prolungamento della sua mano in un ciottolo scheggiato, e più sicuramente ancora è uomo da quando ha pensato e detto di potere e volere manipolare il mondo con un ciottolo scheggiato, e quindi lo ha fatto: poi ha pure constatato con piacere quanto è stato bravo, o ha persino rilevato l’eterogeneità dei fini o qualche altra connessione tra mezzi e fini; ma poi il suo ciottolo scheggiato lo ha conservato nella sua prima rimessa di attrezzi pronti all’uso tanto quanto l’ha conservato in sé, incorporato, come una delle sue capacità di fare, di dire, di sentire; sicché poi è andato a ‘raccontarlo’ in molti modi agli amici, per bisogno di condivisione, e anche per farsi bello amplificando ad arte la sua bravura; sebbene forse più che dire come e cosa ha fatto, lo ha rifatto per farlo vedere e per farsi capire. E ciò qui si immagina non per dare ragione al vecchio divieto parigino di trattare dell’origine delle lingue, ma per ripensare come tecnicità, segnicità ed estetica siano sorelle inseparabili, anche tenendo conto del mare che spesso le allontana, o di come le si rivesta di tutti i loro limiti e condizionamenti storicamente determinati, mode comprese.

Ancorarsi al fondo abbastanza sicuro di queste caratteristiche universali del dire, di ogni modo umano di parlare, è utile anche per fare qualche conto con certi dati del senso comune, o per muoversi con meno inutili certezze nei campi della paleontologia, la scienza che studia le forme più antiche di vita, o della paletnologia, la scienza che studia le forme più antiche di vita umana, per non dire dei campi della linguistica e dell’antropologia. Non è buonismo antropologico politicamente corretto affermare, per esempio con Edward Sapir, che come parlanti “Platone cammina a braccetto col porcaro macedone, e Confucio col selvaggio cacciatore di teste dell’Assam”.

Poche cose al mondo sono meno incerte dell’universalità semantica in quanto tratto comune a ogni lingua umana, sebbene sia tra le cose al mondo più negate o messe in dubbio dal senso comune nelle varie culture. Infatti non è cosa solo dei greci antichi considerare meno umani, barbari, i modi di parlare (e di vivere) dei non greci, ma è cosa che si fa ogni giorno dappertutto per quelli del quartiere o del paese vicino, e oggi, nelle nostre città plurali e nella attuale acculturazione globale, per il mondo multilingue che si riforma in ogni luogo riproducendo la varietà linguistica e più largamente culturale dell’ecumene. La quale così ci è più prossima, anche a riprova dell’universalità ovvero onnipotenza semantica di ogni parlata umana sulla terra.

Foto di Alec Cani

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