Eni. Lente dimissioni

1 Dicembre 2008

Tramonto sulla chimica a Porto Torres
Roberta Pietrasanta

Cronache buone il petrolchimico di Porto Torres non ne ha prodotte da tempo. E anche quando ci sono state (vedi gli annunci di Polimeri Europa a spendere sul territorio una grossa quota dei 720 milioni di euro complessivi destinati all’industria sarda, vedi l’accordo di programma del 2003) è finita sempre con un due di picche. Eni ha annunciato a sorpresa, ma senza sorpresa, la chiusura temporanea dello stabilimento turritano assieme alla fermata di altri numerosi impianti sparsi lungo lo Stivale a partire da dicembre fino al 31 gennaio. Notizia confermata in questi giorni dai volantini fatti appendere sulle bacheche degli operai all’interno della fabbrica e, fatto assai più grave, dall’avvio delle procedure di cassa integrazione per 350 lavoratori annunciato dall’azienda. Gli impianti nel frattempo non resteranno senza presidio ma da essi nemmeno una cicca di prodotto chimico verrà fuori. Gli uomini resteranno dunque a guardare le macchine e nient’altro, mentre i vertici dell’azienda resteranno a guardare un mercato in crisi profonda. Polimeri deve ancora presentare il suo piano industriale all’Eni, ma Eni pare abbia già deciso la partita. La scommessa è adesso capire se è vero che per Porto Torres e per la Sardegna non resteranno che briciole. Briciole da spartire fra migliaia di lavoratori parte dei quali sta già pensando di aver perso un lavoro.

Il sindacato confederale e gli enti locali hanno deciso di non parlare con Polimeri fin quando almeno non ci sarà una mediazione istituzionale forte. Il loro interlcutore dovrebbe essere un impegnatissimo e distrattissimo, almeno per la Sardegna, presidente del consiglio. Ma è anche comprensibile che l’unica strategia di sindacati e istituzioni faccia riferimento a un tavolo nazionale: il tema della chimica e gli annunci dell’Eni riguardano tutto il Paese. Il nodo sta nel comprendere come e perchè al sito turritano spetta la parte più pesante di questa crisi.

Intanto i rapporti fra territorio ed Eni si sono inaspriti e la popolazione è chiamata dal sindacato a sostenere la vertenza dei lavoratori contro la chiusura del petrolchimico. E sembra uno strano destino quello di una città lacerata dalle brutture all’ambiente e alla salute prodotte da un’industria che oggi la chiama in soccorso.

Oggi però la partita sulle bonifiche è su un altro livello. La dismissione dell’industria non la garantisce affatto. Eni ha inquinato ed Eni deve pagare, questo è il principio su cui si basa il ministero dell’ambiente. Ma se mettiamo sul piatto della bilancia tutti i siti di bonifica di interesse nazionale in cui è l’Eni ad aver prodotto inquinamento e le centinaia di milioni di euro che dovrebbe pagare per risanare i terreni, sappiamo anche quanto il ministero possa essere interessato a sollevare la posta. Si tratterebbe di un esborso notevolissimo a tutto vantaggio dello Stato. È chiaro che la partita andrà avanti ancora per le lunghe e per vie legali, mentre le popolazioni residenti nei luoghi in cui c’è stato danno ambientale continueranno a non avere nessun vantaggio.

La dismissione dell’industria turritana rischia invece di procurare gravi sofferenze non solo all’indotto diretto e indiretto del nord Sardegna, ma a larga parte del comparto industriale sardo. Le produzioni del cloro soda di Assemini per esempio sono legate a quelle del vcm e del pvc turritano che appartengono a Ineos. A sua volta, questa filiera si lega alle produzioni di etilene e a tutti gli altri servizi che Polimeri fornisce alla stessa Ineos. La chiusura dello stabilimento comporterebbe per l’azienda inglese la necessità di procurarsi altrove la materia prima che serve per la produzione di dicloretano e quindi di vcm e pvc. Inutile dire che la reazione a catena aggiungerebbe alla rovina ambientale determinata da anni di industria selvaggia, anche un danno all’economia. A questo punto non si tratta più di sostenere o meno l’industria in Sardegna. La pretesa forte, grintosa, della popolazione non può che essere adesso quella di una salvaguardia da parte del governo nazionale finora latitante. Anche perchè la crisi che investe oggi Porto Torres e la provincia di Sassari non può, a ben guardare, cogliere di sorpresa nessuno.

Era il 1994 quando qualche attento osservatore della parabola petrolchmica scriveva “La provincia di Sassari come l’intera Sardegna è coinvolta da una grave crisi. (….) si addensano nuove nubi sul petrolchimico di Porto Torres, il cui peso nel territorio si è gradualmente ridotto nell’ultimo decennio, anche perchè in quest’arco di tempo i lavoratori dipendenti direttamente dello stabilimento Enichem di Porto Torres sono passati da 4000 a 2000 unità” (Sandro Ruju in “Impresa e movimento operaio in Sardegna”). Undici anni prima si parlava del tracollo dell’impero di Rovelli, che proprio l’Eni (come Enoxi) fu chiamata a salvare: “La Sir non è stata un’industria a misura di territorio, a misura di città, a misura degli uomini che ci hanno lavorato. Perciò non poteva essere amata (…)Le condizioni che la Sir avrebbe voluto per operare in Sardegna (erano) finanziamenti agevolati, servizi, infrastrutture realizzate, investimenti a costo zero. Cose che la Sir in larga misura ha avuto. Molti imprenditori a queste condizioni avrebbero saputo realizzare una industria sana invece di andare al disastro che ci sta sotto gli occhi” (Alberto Pinna, inviato corriere della sera, in “Gli anni della Sir”, 1983). In buona parte parole sottoscrivibili allora come oggi. Ma se nell’arco degli anni ’70-’75 lavoravano a Porto Torres circa 9 mila persone fra diretti e indotto e oggi arriviamo a parlare di 3500 persone nel complesso, qualcosa non deve aver funzionato. E il pegno che questo territorio pagò e che ancora paga inevitabilmente, in cambio di un vantaggio economico, se è vero ciò che sta accadendo in queste ultime ore, non ha avuto una contropartita ragionevole. Né sul breve, né sul lungo periodo.

http://robertapietrasanta.blogspot.com/

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