Una crisi elementare

1 Agosto 2010

cubeddu

Mario Cubeddu

In questi giorni, mesi, anni, la scuola svanisce in molti paesi sardi. La scuola elementare esiste in Sardegna da 150 anni circa. Ha imposto l’italiano cancellando il sardo, ha convinto i nostri nonni che andava bene farsi ammazzare per l’Italia, ci ha insegnato a leggere i libri e a porci qualche domanda diversa sul mondo. Quando avevo dieci anni chi voleva proseguire gli studi dopo le elementari doveva sostenere un esame di ammissione al corso di studi superiore. Ci si preparava come se si dovesse sostenere l’esame di maturità. La promozione valeva anche  più di quanto valga oggi superare quella prova. La scuola media è arrivata nei nostri paesi nei primi anni Sessanta. Una meraviglia. Quanti professori, medici, veterinari, impiegati comunali: senza l’arrivo della scuola media nei nostri paesi non avrebbero potuto cominciare il cammino di studi che li avrebbe portati alla laurea.
Ne è derivata una Sardegna che legge molto, informata, appassionata, aperta e democratica. Anche se ha votato Cappellacci. Cosa ne abbiamo fatto, a cosa è servita questa infarinatura di cultura democratica, progressista, vaga quanto le idee di sardismo che la venavano? C’era ben poco senso di realtà in quello che dicevano i professori che si alternavano un’ora dopo l’altra. Il livello culturale era rappresentato anche dai laureati in giurisprudenza e scienze politiche chiamati a insegnare una lingua francese che ignoravano. Ben più significativa nei paesi la figura del procacciatore di pensioni di invalidità che girava di casa in casa a portare il progresso vero, il libretto di pensione che ti consentiva di comprare la televisione, in qualche caso anche la macchina.
Tutto questo comincia a finire in questi giorni. Le scuole chiudono perché non hanno più alunni. I 365 paesi sardi che un Dio benevolo aveva creato per un destino felice, perché ci fosse festa in tutti i giorni dell’anno, cominciano a morire uno dopo l’altro. La struttura produttiva della Sardegna invece di crescere va indebolendosi. L’esplosione della cassa integrazione di questi ultimi anni sembra solo l’acutizzarsi di una crisi, non il suo manifestarsi. Quali sono stati gli anni che in  Sardegna non abbiano visto la presenza per le strade di operai in sciopero, perché licenziati o perché chiedevano il rinnovo della cassa integrazione? La scuola media era funzionale anche  alla formazione di un ceto operaio e al miglioramento delle condizioni economiche e sociali di chi restava a lavorare in campagna. Il collasso della scuola si accompagna a quello di un’intera realtà sociale e umana. La crisi delle campagne è talmente profonda, radicata e diffusa da non essere neanche più oggetto di interesse. Il crollo del prezzo del latte di pecora, le produzioni irrisorie, le malattie che colpiscono greggi ed armenti, vengono sbrigati con trafiletti nelle pagine centrali dell’economia. I paesi sardi stanno morendo e i sintomi dell’agonia cominciano dalla scuola: molti piccoli paesi non hanno già oggi un numero di alunni sufficiente per formare delle classi in base ai criteri sul numero minimo di alunni stabiliti dal Ministero della Pubblica Istruzione. La scuola è una delle prime strutture di servizio a collassare. Seguiranno le altre: posta, farmacia, banca, parrocchia, caserma.
La chiusura di queste strutture comporterà delle conseguenze sociali e culturali notevoli. Intorno a questo cardine di un terziario di impiegati pubblici ruota oggi la vita delle comunità sarde. Senza questo ceto, informato ma speso semicolto, attento alle vicende del mondo anche quando di vedute ristrette, non si spiegherebbe il fiorire dei gruppi di canto a tenore, le ricerche di storia locale, il proliferare di sagre paesane. Ma la loro debolezza culturale si desume dall’uso subalterno e spesso volgare, quando non mistificatorio, delle tradizioni popolari e dallo scarso peso che ha avuto nel determinare e guidare le politiche di sviluppo che pure hanno portato nella Sardegna interna centinaia di milioni di euro da spendere, forse un paio di miliardi.
La crisi della Sardegna dei paesi sembra un processo inarrestabile. Per contenerlo, prima ancora di poter pensare a una inversione di tendenza, è forse opportuno cominciare a ragionare in maniera nuova. Anzitutto occorre battersi per riportare lo sguardo della politica sarda verso le zone interne. A Cagliari non si sa più come spendere i finanziamenti europei e quindi li si usa per deturpare piazze, sradicare alberi che vi hanno vissuto con soddisfazione propria e degli abitanti dei palazzi circostanti, creare nuovi e inutili centri direzionali.
I paesi subiscono più di tutti le conseguenze della crisi. Ma questa si inserisce anche in un processo di decadenza oggettivo. Nei confronti del quale non si può solo lamentarsi o rassegnarsi. Intanto occorre governare la vita di chi ancora vi abita nel modo migliore. Il paese, più o meno grande, che è stato più delle città referente mitico della civiltà sarda, ha forse ancora qualcosa da dire. Anche la crisi può essere occasione per scelte giuste. La manovra correttiva propone ai piccoli paesi l’accorpamento di funzioni e servizi.  La cosa suscita allarme e opposizione: ogni piccolo comune vorrebbe conservare a ogni costo ognuna delle strutture che aveva. A costo di condannare i bambini e i ragazzi a coesistere in situazioni innaturali come quelle create dalle pluriclassi. Non è concepibile una unica linea educativa e formativa proposta allo stesso modo ai bambini di sei anni e ai ragazzi di undici. I politici più avvertiti e attenti alle esigenze reali dei loro amministrati sanno bene che l’unica via per tentare almeno di contenere la crisi è quella di associarsi, di mettere insieme le funzioni per migliorare l’efficacia dei propri interventi e contenere le spese. Ma la scena è dominata dai cattivi politici, che pongono in primo piano i propri interessi di ruolo, di carriera, oltre che di reddito. La situazione disperata potrebbe determinare uno scatto di orgoglio e l’inizio di un percorso nuovo.

6 Commenti a “Una crisi elementare”

  1. Giulio Angioni scrive:

    So che ci sono gli scatti di orgoglio “paesano”. Non so quanti siano e quanto illuminati almeno da elementare sardismo. Ma ieri ne ho visto uno. Al mio paese. Mi chiedo se al tuo, Seneghe, ce ne sarà ancora un altro a settembre, come gli altri anni.

  2. Mario Cubeddu scrive:

    Ci sono scatti di orgoglio quando meno te li aspetti. Credo che la Sardegna di oggi si stia svegliando dopo essersi accorta di quello che ha fatto rifiutando le esperienze degli anni di Soru. Certo, a Seneghe ci stiamo preparando per un altro Settembre, bello come quello degli altri anni.

  3. Marcello Madau scrive:

    Nessuno può paragonare, neanche critici non accomodanti come qua al Manifesto Sardo, l’attuale linea culturale (più che linea, un vuoto) della Giunta Cappellacci con quella precedente. Non dovrebbe stupire che un’esperienza progressista sia nella cultura comunque più attiva di questo centro-destra che non lo è neppure in un’ottica conservatrice. Ma lo stesso Soru riconosce di essersi occupato più di coste che di zone interne. Ha avuto il merito, non da poco, di dare per la prima volta centralità ai beni culturali e paesaggistici nelle politiche regionali, ma le sue linee su cultura (e quindi identità) non sono state sempre convincenti, e l’abbiamo notato: sui beni culturali, sulla lingua, sull’organizzazione dei siti archeologici e sullo stesso Museo dell’Identità. Sinceramente non vedo da parte della Sardegna questo risveglio, nè un rimpianto generalizzato di Soru. E se ci fosse un po’ mi preoccuperebbe, perché come risveglio sarebbe incompleto.
    Auguriamoci che questo centro-destra servile e incompetente se ne vada al più presto e non smettiamo di discutere, ma criticamente. Il discorso della ripresa culturale delle zone interne – su questo punto ho molto apprezzato l’articolo di Mario – va ben oltre Soru (oggi una componente del Partito Democratico) per diventare qualcosa di più ampio e profondo: rinnovata costruzione alla quale la politica progressista dovrà partecipare con passione. Magari sviluppando – per lo meno nella sua ‘ala’ sinistra – modelli e processi di costruzione popolare, autogestita e competente dal basso, diffidando di grandi e piccoli sovrani, anche se illuminati.

  4. Michele Podda scrive:

    Esportare cultura, come ha fatto l’Italia in Sardegna, significa UCCIDERE LA CULTURA, e soltanto chi occupava posti di comando poteva RESISTERE. Il rullo compressore della scuola, della televisione e della chimica (sono del Nuorese) ha travolto tutto, e con cultura e lingua, pian piano se ne va anche il resto.
    Qualcosa da salvare esiste ancora, non molto e non per molto. La pastorizia regredisce e le campagne sono incolte. Non abbiamo sviluppato sistemi moderni e legati alla tradizione; siamo qui a sbattere i caschi sul selciato, a salire sulle ciminiere, a ospitare visitatori all’Asinara o a piangere a Cagliari Roma Bruxelles. Non ci resta forse che “vendere” (alla mafia, ai cinesi, all’eolico…) o “venderci” (turismo imperante): non c’è male!
    In questo caos “il paese ha ancora molto da dire”, ma per sapere cosa bisognerebbe chiederlo al paese, e trovare il modo di realizzare quella democrazia diretta che ormai è l’unico modo di sfuggire alle decisioni di politici corrotti o di “grandi e piccoli sovrani, anche se illuminati”, come dice Madau. Non sarà facile.
    Serve mettere insieme persone che la pensano allo stesso modo, ma non è facile. Le persone di buona volontà ci sono, ma ogni tentativo di unirle, inesorabilmente si infrange sul mito dell’evento, reale o presunto-percepito che esso sia. Troppi partitelli e associazioni, con fini poco chiari o fin troppo, ci hanno reso estremamente diffidenti, verso tutto e verso tutti.
    Se si trovasse un modo di partire, con cautela..

  5. Giulio Angioni scrive:

    Forse non è molto cauto partire con l’idea che l’Italia in Sardegna ha SOLO esportato cultura uccidendo la cultura. Ha fatto così in Sardegna anche il resto d’Europa, e del mondo? Sicuramente. Ma non ha fatto soltanto questo il resto del mondo, in Sardegna e nel resto del mondo, che sia primo nondo, o secondo o terzo… E per me nemmeno l’Italia ufficiale unitaria ha fatto SOLO questo, e tanto meno ha fatto SOLO questo l’Italia preunitaria, nemmeno nei secoli peggiori romani e pisani e genovesi… Così, cercando un po’ di cautela, mi viene da considerare, pur consentendo molto con Michele Podda, e con gli altri.

  6. Mario Cubeddu scrive:

    Cari compagni, amici, di questo casuale dialogo d’agosto. Condivido in genere la sofferenza di Michele Podda rispetto a ciò che abbiamo subito e subiamo. Mi ribolle sempre qualcosa, anche se non mi piace del tutto, contro i Comincioli-Cappellacci-La Spisa. E’ anche un senso di minorità, l’altra faccia dell’empatia verso i disperati della terra disperata di cui mi sento parte in tutto. Ma è anche certo che gli altri, e gli italiani in primo luogo, e gli spagnoli, e gli europei, ci hanno aiutato a costruire un senso di uguaglianza, di parità. Non dobbiamo vederci diversi da quello che siamo. Abbiamo in casa gli stessi libri, gli stessi dischi, le stesse cassette di film, dei nostri coetanei europei. Gli amici di fuori sono spesso un sollievo rispetto agli amici sardi, cioè rispetto a noi stessi. Il mondo in cui vivo mi piace. Come diceva tziu Antoni Tzucheddu “die mara”: deo como istu bene, tenzo su mundu in domo.

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