I precari al cimitero

30 Aprile 2012

Federico Zappino

Credo che molti di noi, pochi giorni fa, abbiano letto con profondo senso di tristezza la storia di Lucia, ventottenne di Cosenza, che si è tolta la vita lanciandosi dal balcone per la frustrazione legata all’aver conseguito una laurea in Ingegneria, a pieni voti, e al trovarsi a svolgere invece un lavoro assai poco retribuito, precario, tutt’altro che gratificante.
La storia di Lucia ha certamente più sfumature di quelle che il mio resoconto sia in grado di restituire. Ogni storia, infatti, contiene in sé un’unicità irripetibile, che qualsiasi racconto non potrà mai afferrare del tutto e non esistono, in sostanza, criteri generali per giudicare storie particolari. È vero anche, però, che la reazione di Lucia somiglia a quella di tante altre persone: la disperazione per non riuscire ad arrivare a fine mese; il senso di fallimento derivante dall’aver investito in formazione e dal trovarsi poi a svolgere mansioni modeste, se non addirittura inutili, e peraltro scarsamente retribuite; l’impossibilità di progettare il futuro per via della quasi totale assenza di ammortizzatori sociali e di garanzie di reddito; ecc., rendono il suicidio un fenomeno in aumento, di giorno in giorno. Fenomeno, peraltro, che riguarda tanto i più giovani (categoria svincolata dall’età anagrafica, con cui si intendono gli “iper-istruiti”, i lavoratori precari di vario tipo, o che non avranno una pensione), quanto i più anziani (come gli imprenditori di piccole e medie imprese), per motivi ovviamente diversi.
I primi, per il dovere di costruirsi una biografia, mostrando di possedere un adeguato senso della flessibilità e dell’umiltà, in un sistema tutt’altro che flessibile o umile e, spesso, in regime di scarsità di mezzi: come se vi venisse concessa la possibilità di progettare e costruire la casa dei vostri sogni senza che voi siate al contempo architetti e muratori, senza finanziamenti e senza mezzi (è chiaro che da questo dovere sono esonerati coloro che possono contare sul sostegno, anzitutto economico, della propria famiglia). I secondi, invece, perché hanno il dovere di continuare a far fronte a un progetto iniziato molti anni prima, quando nutrivano una fiducia illimitata nel progresso, nel Welfare e nello Stato di diritto.
È strano rendersi conto che in un sistema politico fondato su un’ipernarrazione dei diritti, le persone si suicidano per non riuscire a far fronte a dei doveri. E quando si verificano cortocircuiti di questo tipo, significa che qualcosa è andato storto: significa che si è proceduto a elaborare teorizzazioni di questi due concetti – diritti e doveri – irresponsabili o illusorie. L’attuale congiuntura economica e politica ci conferma, ad esempio, che i diritti civili e sociali non sono affatto universali, e che nelle falle del sistema si annidano connivenze, collusioni, aristocrazie di ritorno e divari vertiginosi tra individui o, addirittura, tra intere classi sociali. I colpevoli di questo collasso, invece, fino a ieri costruivano il mito del progresso illimitato basato su un vero e proprio egoismo istituzionalizzato, sull’esaltazione del “privato”, sulla maleducazione sentimentale, sull’elusione di qualsiasi forma di responsabilità, per lo spazio comune, le generazioni future, ecc. Non che ritenessero tali questioni totalmente irrilevanti, ma sostenevano che a quelle cose ci dovessero pensare le “istituzioni di libertà” preposte (la scuola, l’università, le politiche sociali, la previdenza, ecc.): come se gli apparati burocratici potessero stare in piedi da soli, ispirati da un qualche ideale umano e non economico senza che quegli stessi ideali fossero ritenuti validi dai cittadini (che in quelle istituzioni, spesso, operano e fanno carriera, mossi dalla più totale abulia), e come se non sapessero, aggiungerei, che quelle istituzioni fossero esse stesse asservite a logiche interamente economiche. È proprio la retorica dei diritti a essere funzionale al sistema politico ed economico liberal-liberista, scrisse Iris Young: illude, infatti, i gruppi svantaggiati (con un discreto successo), di poter ristorare la loro “sete di giustizia”, ma è assai lontana dal conseguire una reale giustizia sociale, proprio perché questa sarebbe incompatibile con lo stesso liberismo.
Cortocircuiti come quello che ho provato a descrivere si ripropongono, ad esempio, quando le persone cercano di ricostruire il senso delle ingiustizie che subiscono. Uno dei motivi che mi hanno condotto a soffermarmi sulla storia specifica di Lucia è la rabbia che ho provato nel leggere la lettera che sua madre, qualche giorno dopo il tragico epilogo, ha inviato a un quotidiano locale calabrese. Non si può banalizzare e liquidare il suo gesto come un suicidio dettato dalla depressione, precisa in apertura. Uno dei processi di deresponsabilizzazione (delle istituzioni in primo luogo, ma anche degli individui, sebbene in forma meno immediata) più di successo, infatti, è consistito proprio in una sorta di “psicologizzazione” dell’esistenza, ossia nell’attribuzione alla psiche dei singoli individui del controllo su esperienze e avvenimenti che in realtà sono in grado di controllare assai poco. Come se una giovane donna che si suicida agisce così “solo” per il “suo” disagio psichico; come se la psiche fosse perfettamente isolabile dall’interferenza della società; come se la depressione fosse causa, e non conseguenza. Cosicchè si possa dire: Si è suicidata, ma era matta; non è colpa di nessuno, se non della natura.
Attribuire le colpe alla natura è uno stratagemma infallibile per proclamare l’innocenza collettiva (gli abusi sui manicomiali, per rimanere in tema di depressione, erano legittimati proprio dal binomio colpa della natura/innocenza sociale). Allo stesso obiettivo, però, perviene anche la proclamazione della colpa collettiva, che è ciò che fa la madre di Lucia nella sua lettera: Se non l’avessimo uccisa, tutti, ci avrebbe dato di più. Perché è pericoloso dire questo? Perché laddove tutti hanno colpa, significa che in fondo nessuno ne ha: la colpa, invece, che mantiene lo stesso significato sia nel campo della morale sia del diritto, ha lo scopo di singolarizzare gli individui e di riferirsi alle loro azioni, e non a ciò che avrebbero dovuto, voluto o potuto fare. Dire che tutti abbiamo ucciso Lucia significa solidarizzare con i veri colpevoli, significa dire che tutti abbiamo lo stesso potere sulle vite altrui, e altri illogici nonsense, mentre la colpa, ossia l’imputazione, è sempre individuale; la responsabilità, semmai, può essere collettiva (come è in questo caso), ma non ha nulla a che vedere con la colpa.
Lucia, scrive infine sua madre, era sicura che il merito avrebbe pagato: credo di non aver bisogno di dilungarmi sulla critica del “merito” che, da più parti, è già fortunatamente sotto accusa. È chiaro che le parole di questa madre sono state dettate dall’angoscia più profonda, mista a un bisogno di giustizia, o almeno è ciò che immagino. Ma quando anche di fronte alla mesta presa di coscienza di non aver più nulla da perdere non riusciamo a trovare validi criteri di giudizio, significa che non siamo realmente consapevoli della complessità delle logiche che determinano il nostro stare nel mondo e, quindi, che da questo dolore e da questa rabbia non nascerà nulla, perché non saremo affatto in grado di assumerci la responsabilità di agire incisivamente al fine di trasformarle quelle logiche, o addirittura di rovesciarle.

3 Commenti a “I precari al cimitero”

  1. Augusto Celsi scrive:

    Io così ho perso la mia mamma con le prime cure di Psico Farmaci una settimana prima di morire scendendo dal treno si scordó una dei tre figli piccoli sullo stesso. Anche questa può sembrare una morte normale ma dietro c’è la tragedia e la disperazione di una Donna uccisa dal sistema.

  2. Walter Marcolini scrive:

    condivido, e comprendo le possibili conseguenze di soggetti lasciati soli,che è il più drammatico atteggiamento dello stato verso coloro che sono la risorsa futura.
    la mia esperienza, figlio della cultura contadina, di cui mi onoro, ho lavorato tutta la vita per un futuro migliore ai mie tre figli; due laureati, un tecnico eletronico: risultato : una a Ginevra, una a Filadelfia l’altro in giro per l’europa 40 mila km annui, Risultato alla mia Italia non servono ed io come ricompensa, solo ed una vecchiaia incerta. bella prospettiva.

  3. Federico Zappino scrive:

    Cari Augusto e Walter,
    vi ringrazio molto per avermi onorato delle vostre condivisioni. Sono due storie diverse, ed entrambe importanti, e drammatiche, e anche dolorose, come immagino. Rafforzano quell’idea che sia necessario ripartire dalle nostre narrazioni particolari, per trovarvi elementi in comune, che si intrecciano; se riusciranno a saldarsi in tanti nodi costituiranno a loro volta una corda nuova e più forte. Con l’infinito rispetto che provo per il vostro gesto, non aggiungo dunque altro.
    Un caro saluto.

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