Habeas porcus

1 Aprile 2009

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Giovanni Dettori

Cerca una maglia rotta nella rete
che ci  stringe, tu balza fuori, fuggi!

“Io non ho perso contro Berlusconi, ma contro le sue televisioni, contro la Rai di Berlusconi, contro i giornali di Berlusconi…”. Così Renato Soru in una ultima  lunga intervista rilasciata a Paolo Madron a pagina 11 de Il Sole 24 Ore di domenica22 marzo 09. E ancora: il clientelismo, il rigore dei bilanci che comporta perdita dei consensi, lo stretto legame tra Berlusconi e una parte importante della Curia eccetera. Non una sola parola, mosca, sulla sorda deleteria palese infingardaggine dei cattopapisti del Pd che ha finito col mietergli l’erba sotto i piedi. E forse un altrettanto diplomatico silenzio anche sulla sordità dei cosiddetti sardi-di-dentro, degli eterni “stanziali”, a una diversa idea di Sardegna, a un processo di cambiamento e un progetto di rinnovamento della politica che finalmente superasse incancrenite assuefazioni all’elemosina e all’assistenzialismo. Che bloccasse le voglie, le bulimie  edificatorie dei bottegai e dei devoti al cemento armato. Che infine facesse criticamente i conti con le nebulose identitarie di residuali carnevalate folcloristiche: da “piccole patrie” della petulanza e della separatezza. Non siamo granché diversi dagli altri. Siamo continuamente esposti, corriamo ogni giorno il rischio di rassomigliare e tradurre in sardo il folklore celtico dei “lumbard”. Dopo la mazzata di febbraio, continuo a farmi sempre più persuaso che la presunta “costante resistenziale” sarda inventata dal nostro patriarca di Barumini – falso credita et ementita -, finisca sempre col risolversi, salvo eccezioni, in un rosario di servitù volontarie, così protervamente perseguite dai nostri “sardi-di-dentro”. Quanto meno dalla maggioranza di essi: tzerakkos sémper, petitores de Gonare. Perché questa volta non è tanto e soltanto Soru ad essere stato sconfitto: è stata sconfitta la Sardegna. Un “progetto” comunitario, una alternativa di vita che oltre-passava la sua persona. La posta in gioco – e questa volta ci giocavamo proprio tutto, quanto meno quel poco che ancora  restava da salvare – non era semplicemente, come si dice, “alta”. Era totale. Ne andava del nostro futuro. Della vita stessa. Ciò non ostante, ha stravinto e tripudiato in ogni senso, in lungo e in largo, la resa incondizionata al peggio: all’individualismo, alla cultura del virtuale, al becerume, all’estetica del brutto. Con maggioranze bulgare. E la scommessa è andata persa forse a sempre. Battuta dagli stessi sardi, aperti sempre e soltanto al nulla: un ennesimo ulteriore bottino di cui andare giustamente orgogliosi. Riportiamo a casa le spoglie: le nostre. Non che il nostro “governatore” mi sia mai stato tanto con-geniale, né che mai abbia pensato di scodinzolargli dietro negli anni in cui è stato sugli altari… Già nel lontanissimo 2003 – “alle  origini”: in tempi non sospetti – la sua improvvisa “apparizione” in scena non mi aveva sconvolto più di tanto.  In una rivistina cenere da tempo, Nuoro oggi, sogghignavo: “Tra annunzi e smentite, dalla dolina di Tiscali, si annunzia l’avvento di un ennesimo – diverso? – imprenditore-di-successo incarnatosi miracolosamente in terra sarda: Renato Soru. Il quale  fa sapere allo stremato popolo delle spiagge d’agosto che, se si candida, presenterà un suo menù ai cristalli liquidi. Non trascura, come si addice a un “homo novus” di accusare i vecchi partiti e, subito dopo, secondo rito, smentire. Restiamo pur sempre sul classico, o no?” La notizia: ventotto agosto duemilatre … Avvenne, poi, che quei vecchi partiti allora accusati finirono per diventare i suoi peggiori alleati. In politica, succede. E va a finire che a pagarla cara si sia un po’ tutti. E tuttavia e non-ostante-tutto, questa volta mi ero rassegnato ad aderire al manifesto per Soru promosso dai “sardi-di-fuori” – la parola emigrati pare sia tabù da tempo –: confidando che quanto meno il Sardus Pater ci potesse assistere.  E per quanto potesse valere la firma di un sardo-di-fuori senza diritto di voto lo avevo firmato. Questa volta  non avevamo scelta. Per quanto sia questo non avere scelta che sempre ci tormenta: costretti, sempre, all’hic-Rhodus-hic-salta… Dover schierarsi, sempre, contro qualcuno o qualcosa, piuttosto che per qualcuno o qualcosa che non sia soltanto il male minore. Essere persuasi che, finalmente, si è imparata la lezione dagli anni delle svendite e dello sfacelo di tutto. Che un altro vento possa infine levarsi. Ma a freddamente considerare che Soru era stato messo appena avant’ieri in crisi e in condizioni di dimettersi precisamente dalle ottuse burocrazie e dagli inciuci cementificatorio-sviluppisti di uno dei “vecchi partiti” da lui diffidati, transustaziato in un  se-dicente Partito democratico, con il quale ora e dopo dovrà arrangiarsi a convivere e coesistere per quanto a collo storto – fino a quando? -, le riserve e i  dubbi da metodici finivano coll’ avviarsi all’iperbole. Abbagliavano i costi che  già abbiamo dovuto pagare in disagio sociale, malessere, disgregazione, vita mortificata, delinquenza minorile, alcolismo e droghe, depressioni, psicosi e schizofrenie… I nostri paesi non più distinguibili da anonime e anomiche periferie urbane.  I nostri “centri” tutto un fiorire di cliniche psichiatriche e demenza… Le nostre vere “eccellenze” continuando ad accadere, potenziate, nel quotidiano: le catastrofi. Eppure, ancora una volta, oggi, si preferisce parlare d’altro, delle nostre altre punte di eccellenza: salsicce di Irgoli e tappeti di Nule, sarti di Orani e vellutini di Orune, vini e cantine sociali di ognidove,  oreficerie e coralli e  filigrane. Modiste e modisti del “made in Sardinia” a rivestire gli ignudi  di Tokio… Poco mi ha persuaso, né oggi né mai, questa cieca “visione” biecamente economcista del  nostro“travaglio” di sardi: siamo anche noi, come tutti, alle solite “sordide forme giudaiche”. Produzione e mercato. Industria e derivati hanno ben scavato per una Sardegna berlusconizzata. Fascinati dai “sardi che si fanno onore nel mondo”. Dai “salvati”. E i sommersi?… Rivoluzioni dell’apparire e falsa coscienza: il nostro habeas corpus aggiornato  riproposto e immiserito in un più pertinente e connotativo habeas porcus… Si ha una bella voglia di continuare a raccontare e raccontarci fole con patetiche “dies de ssa Sardigna”, uniti e solidali tra noi soltanto quando si trattava di farci massacrare su fronti di guerre che mai ci riguardavano. Mai siamo stati uniti, solidali. Il “forza paris!” lo abbiamo scoperto, praticato e gridato, suppongo, soltanto in quelle occasioni: i mattatoi della storia. Del resto, non abbiamo anche fatto di un cartaginese il nostro eroe nazionale e di una ispanica la nostra eroina? Né mai ci siamo amati, tollerati, quanto meno sopportati a vicenda. Mi ritornano alcuni versi di una lunga poesia di Auden, 1° settembre 1939 : …” non c’è una cosa chiamata Stato / e nessuno esiste da solo; / la fame non lascia scelta / al cittadino né alla polizia; / noi dobbiamo amarci l’un l’altro o morire (We must love one another or die)…
Dove quel “must” suona più costrizione, aut-aut ineluttabile, che non dovere: siamo costretti ad amarci non-ostante-tutto se non vogliamo morire. Sempre, per quanto ne so, abbiamo scelto per la disfatta e la morte. Così, ancora una volta, ancora oggi, finisco con il convincermi sempre più che la nostra pulsione più vera e profonda sia da sempre quella di dividerci e sbranarci a vicenda. La pulsione a predisporci di volta in volta a nuovi, ma sempre identici servaggi, ammanettandoci con le nostre stesse mani, invocando un padrone che “pensi” a noi e per noi, ci assista e risolva i nostri problemi: “zio Silvio, pensaci tu”!… Così gemeva, grottesca, la supplica inalberata nei cartelli dei licenziati alla Euroallumina: di ben altro pelo, gli operai francesi non questuano, si incazzano, sequestrando il manager. Una tragedia, la nostra, avviata a risolversi sempre in miserere e farsa. Sos kervéddos a ss’ammàssu, si dice dalle mie parti. Eccome ci penserà, zio Silvio. Tranquilli. Mansueti. E morti… Si è finito col fare della nostra terra una miserabile appendice di Arcore, un proconsolato del piccolo bonaparte di palazzo Grazioli. Poi, ovviamente, come da sempre è sardo costume, ci si lamenterà, frignando sul colonialismo, sul nemico-che-viene-dal mare. E chi altro, se non noi, gli ha da sempre spalancato le porte. E siamo ancora una volta noi stessi ad averlo stolidamente invocato, favorito, forzando i cardini dall’interno, smantellando le mura. Soltanto adesso, davanti ai cancelli sprangati, i “senza-riserve” della Euroallumina sembrano rendersi conto della trappola in cui si sono precipitati: “Ci avete indirizzato a votare chi volevate voi e noi abbiamo votato, ma poi ci hanno fregato”. Più corretto sarebbe: ci siamo da noi stessi fregati… C’è una risposta sarcastica, tutta sarda, per chi poi piange sulle legnate che si è buscato dopo averle egli stesso cercate: si no ti kerías sonàtu no t’esséres fattu kámpana. Come ancora si può, com’è ancora possibile  questo autolesionismo, questo masochismo da manuale… Invocando la frusta. Ancora, più frusta ancora, ancora non ci basta. Tutto ciò è avvilente: quel che mi resta di buon senso, di ragionevolezza, vi si ribella. Il cavallo col nemico in pancia  ancora una volta  è stato volontaria-mente introdotto dentro le mura: non attenderà la notte… Ci aveva ben saputo leggere dentro e segnare a fuoco, come la schiena di un bue, Carlo quinto o chi per lui  con quell’inconfutabile “locos y male unidos” che ancora oggi ci marca. Siamo melanconici e tristi, geneticamente: ora, finalmente, impareremo e cominceremo a ridere di gusto. Non col ghigno sardonico di una volta. Come vorrebbe Gavino Sanna e il suo nuovo datore di lavoro… Cantava a suo tempo Jannacci: “sempre allegri bisogna stare / ché il nostro pianto fa male al re / fa male al ricco e al cardinale”… eccetera. Mi domando ora, infine, in che consista il tanto strombettato “rinascimento sardo” e, se mai sia esistito, quale incidenza abbia avuto sulle nostre coscienze. Sulle folle, o masse che dir si voglia. Artisti e scrittori, continuano a “creare”, diciamo così, ciascuno pro-domo-sua, senza peraltro trascurare di accoltellarsi a vicenda.  Rilassante e appagante esercizio mentale di maldicenza e sprezzo praticato con coscienza anche dal “Club-degli-onesti”: la nostra cleresia. I chierici devoti, votati al Verbo… Sono 22 anni che Paolo Fresu suona le trombe della resurrezione ai berchiddesi – chissà che non si sveglino! – i quali, per quanto li riguarda, continuano a dormire e a ingrassare con le loro cantine di fermentino. Fottendosene degli appuntamenti alle canicole d’agosto come delle fanfare del mondo che gli entra in casa. Vidisticredìsti: Il 60,5%  dei dormienti della caverna, dei suoi concittadini-quasi-galluresi, sogna di una paradisiaca Arcore sarda e appena un 36,0% si risveglia sulla dura terra di sempre. Col culo per terra. Quanto alle altre “fucine” di cultura, poesia e prosa, Séneghe la spunta di un punto e così Asuni eccetera. Un po’ meglio Gavoi. Domanda: davvero siamo ri-nati? E trombe, “noir”, poesia ri-svegliano qualcuno da letargie millenarie? Giobbe è ancora lì a domandarselo senza possibile risposta. Così, l’arcano dei nostri presunti e disastrati rinascimenti, del loro incidere o lasciare traccia appena visibile sul suolo, si disvela in tutta la sua triste miserabilità… Ma è tutta la “Gaddùra” ad acclamare napoleone-il-piccolo con maggioranze bulgare. E del resto, questi bottegai, kustos lottráios, quando parlano di noi, quasi un residuato, non ci chiamano “li sàldi”? Loro, gli alieni: de palas de galéra… Lo spagnolesco “locos y male unidos” è l’equivalente della nostra millenaria sapienza: “kéntu kòncas, kéntu berríttas… E il forza paris pressoché sempre ritradotto con  kataúnu a kóntu suo. Così, questa volta, i socialisti di casa non diversa-mente dai loro sbiaditi “compagni”del “continente”, chiedono garanzia di cadréghe. Non ottenendole, deliberano di navigare a vista, solitari e finali, in “balia” del nulla. Gli indipendentisti di variegato pelo, ma di identica prosopopea e protervia sedicente identitaria, decidono di salmodiare per proprio conto in mutrioso antagonismo col popolo della Repubblica-dello Scoglio. Fedeli come non mai alla memoria del loro padre fondatore, più bendati e ciechi che mai, i neo Moro-Azzurri, miserabili epigoni di un Pisdaz d’altri tempi, consegnano bandiera e ceneri del cavaliere dei rossomori al mausoleo e ai marmi di Arcore… In questa mirabile e stravagante “coincidentia oppositorum”, il verdetto del ”popolo sardo” è quanto meno promettente per il prossimo inverno di tutti i nostri scontenti. Ecco qua il requiem:
– L’Ogliastra delle basi all’uranio impoverito reclama e vota auspicando tanti agnelli a tre teste. Insoddisfatta e rancorosa che continuino a nascerle appena e soltanto con due. E si augura un vigoroso incremento di linfomi infantili e di qualsivoglia famiglia di tumori. Liquidi o solidi che siano. Andranno bene comunque.
– Si associano, festanti, le zone industriali del Capo di sotto, di mezzo e di sopra: non ancora del tutto soddisfatte di miasmi e pestificazioni di ogni sorta. L’operaio-.in-tuta, dimenticati i gambali, con le ciminiere dell’avvenire allo stoppino, nell’impossibilita di tornare indietro o emigrare come ai bei tempi di una volta, si abbandona fiducioso alla divina provvidenza del Cavaliere fulàno. Presagisce, fiuta già la fine del topo in trappola.
– Quanto ai Comuni della costa, che vi nasca o tramonti il sole, quelli ancora commestibili e rosicchiabili dal dente delle ruspe, hanno anch’essi un loro sogno: di colate di cementi e calcestruzzi come redenzione e finale liberazione da una vaga memoria di indigenze e male arie. Sognano il turista-da-fottere. Il varo dell’ultimo “piano casa” gli chiuderà sia pure la sola vista del mare. Ma tante botteghe fioriranno
–  Solitaria, anch’essa qua e là già corrosa, la provincia di Nuoro: un’enclave ormai minacciata dagli sfaceli. I “micciùrri” di Oliena, disperse nel vento le ceneri dei Melis dopo averne abraso anche la memoria, sono già ai piedi dell’Ortobene… Fino  a quando durerà questo No, questo residuale rifiuto allo sfacelo? – “Dammi tempo che ti buco”- , disse alla pietra il verme.
Per chiudere in bellezza, mi soccorre un aforisma di Kleist che parrebbe raccontare anche di noi. Demostene alle repubbliche greche: Se per conservarvi aveste fatto soltanto la metà di quanto faceste per distruggervi, sareste ancora liberi e felici.
Non gli abbiamo dato retta / Non lo abbiamo ascoltato.

3 Commenti a “Habeas porcus”

  1. Simona Labieni scrive:

    Bellissimo articolo che condivido pienamente…. Fra i migliori letti finora… I fatti sono andati proprio così… I fatti sono proprio quelli descritti. Vorrei tanto che lo leggessero soprattutto chi ha volutamente e/o “non volutamente” cercato questo risultato! Io, nemmeno se fossi stata una pecora avrei voluto berlusconi come pastore e tanto meno cappellacci come servo-pastore!

  2. Andrea Argiolas scrive:

    Stupendo.. Un grido di dolore, finalmente lancinante, finalmente umano. Che sa di redenzione o di guarigione, per quanto precaria e momentanea.

  3. Giancarlo Buffa scrive:

    E’ un altro Giovanni che grida -ahimé- nel deserto.

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