I diritti stracciati dell’Est Europa

5 Maggio 2013
Guglielmo Meardi*
La situazione sindacale nei Paesi dell’Europa centro-orientale è peggiore rispetto a quella dei Paesi occidentali: sindacalizzazione più bassa, inferiore copertura della contrattazione collettiva, diritto di sciopero sottoposto a limitazioni.
Il passato è solo in parte causa di questa debolezza: chi ha vissuto per 40 o 50 anni in un Paese che si chiamava comunista e che per gli operai non era un granché, può essere poi più propenso ad accettare ideologie anticomuniste, antisocialiste e antioperaie. Ma ormai siamo a 24 anni dopo la caduta del comunismo, la maggior parte dei lavoratori oggi nell’Europa centro-orientale hanno iniziato a lavorare dopo la caduta del Muro di Berlino, per cui è difficile dire che tutto quello che succede è a causa di quello che era successo nei precedenti 40 anni. In particolare contesto l’idea che sia tutta colpa dei lavoratori, cioè che questi non capiscano o che siano un pochino stupidi e non si iscrivono al sindacato perché non comprendono i propri interessi.
In realtà, già dai primi anni ’90, nelle fabbriche Fiat in Polonia e nelle Acciaierie Lucchini a Varsavia, gli operai avevano una chiara consapevolezza della propria condizione, sapevano che le lotte della fine anni ’80 contro il cottimo e contro l’arbitrio dei capi erano esattamente le stesse di ogni parte del mondo. Mi raccontavano gli operai delle Fiat in Polonia, a metà degli anni ’90: “Noi abbiamo combattuto per motivi politici e per motivi operai, sui motivi politici è cambiato tutto, non esiste più l’Unione Sovietica, non esiste più il comunismo, abbiamo il capitalismo, la fabbrica è diventata privata, l’unica cosa che non è cambiata è il capo, per cui facevamo gli scioperi negli anni ’80, quello non è cambiato e ce l’abbiamo ancora, era stronzo negli anni ’80 e lo è ugualmente negli anni ’90!”. (…)
Gli economisti dicono che ormai il mondo è piatto, per cui tutti avrebbero le stesse chances dentro la competizione globale, quindi l’allargamento dell’Unione Europea dovrebbe dare nuove opportunità ai nuovi soci dell’Ue per svilupparsi economicamente e socialmente. In realtà, nonostante ci sia stato nei primi anni dopo l’allargamento, un’ottima crescita economica nei Paesi centro-orientali, dal punto di vista sociale il divario con l’Europa occidentale non è diminuito, anzi è aumentata e il crollo della sindacalizzazione nell’Europa centro-orientale è aumentato a ritmi molto più veloci rispetto all’Europa occidentali. Lo stesso è per la contrattazione che, invece di aumentare a livelli occidentali, continua a calare, cala il livello di copertura dei contratti collettivi, aumenta il precariato (fino a due anni fa il paese più “flessibile” d’Europa era la Spagna, dall’anno scorso è la Polonia), è aumentata la povertà soprattutto tra i giovani (quelli che entrano sul mercato del lavoro non hanno nessuna copertura, nessun servizio sociale o nessuna politica sociale che possa aiutarli). Complessivamente si può dire che questi paesi dell’ex blocco sovietico, entrando nell’Ue sono stati usati come laboratorio per nuovi modelli sociali di stampo liberista.
E sono stati anche un grande affare industriale: come per le fabbriche tedesche nell’Europa centro-orientale che riescono ad avere livelli di produttività e qualità più alti addirittura degli stabilimenti in Germania (come è successo nello stabilimento Volkswagen di Polkowice in Polonia), pur non avendo la contropartita sociale che – ci era stato raccontato – era essenziale per la tenuta del modello tedesco. (…)
La crisi è poi piombata molto pesantemente sui paesi dell’Europa centro-orientale, soprattutto su quei Paesi che fino al 2008 venivano citati regolarmente dalla Banca Europea e dall’Unione Europea come il modello di liberalismo che tutti dovevano seguire: dalla Lettonia alla Slovacchia, dalla Romania alla Bulgaria, il crollo è stato peggiore che nei Paesi occidentali (soprattutto in Bulgaria al momento c’è una situazione disastrosa, ma anche la Lettonia ha avuto un crollo del 20%, 25% del Pil).
L’austerità che è stata imposta ai Paesi centro-orientali è peggiore rispetto a quella della Grecia e di Cipro e viene utilizzata come modello, viene ripetuto dal Fondo Monetario internazionale: “La Lettonia l’ha fatto, ha tagliato molto più della Grecia, perché i greci non vogliono farlo? Dovrebbero poterlo fare!”. Quello che non si dice è che la Lettonia è un Paese di 2 milioni e mezzo di abitanti, con il 30% della popolazione emigrata altrove: indicarla come modello per tutta l’Europa meridionale vuol dire che un terzo di quei lavoratori devono andare altrove, chissà dove… Per questo trascurare ciò che sta succedendo nell’Europa centro-orientale e non capirlo vuol dire, poi, rischiare di passare attraverso le stesse esperienze in modo ancora peggiore.
Vale anche per le relazioni sindacali. Se si guarda la Fiat, ad esempio, il fatto che negli anni ’90 i modelli di riorganizzazione del lavoro fossero sperimentati in particolare nelle fabbriche polacche e che abbiamo funzionato bene in quelle ha voluto dire, poi, che le stesse cose sono state imposte ad Ovest e che le fabbriche sono state poste in concorrenza diretta fra loro. (…)
Per reagire serve l’indipendenza: i Paesi centro-orientali, dimostrano che subordinare l’attività sindacale all’idea della competitività può funzionare per un paio di anni, nel senso che attiri un bel po’ di investimenti stranieri, ma crei dei problemi sociali, crei una vulnerabilità economica che è peggiore di quella occidentale, anche all’interno di fabbriche che hanno avuto successo, perché alla Fiat stanno tagliando più posti in Polonia che in Italia, dove la situazione ovviamente non è ottima.
Contrariamente a ciò che sostengono certi economisti, il mondo non è piatto, l’Unione Europea non è diventata piatta, non ha creato più pari opportunità per tutti. Il mondo e l’Europa sono molto inclinati con sempre più crepacci: è molto importante che il sindacato non rimanga isolato tra i crepacci, incapace di creare ponti tra varie parti dell’Europa o varie parti del mondo del lavoro, non ridursi a difendere quello che può all’interno dei crepacci, lasciando altre parti d’Europa e del mondo del lavoro perdersi senza rappresentanza. Perché, alla fine, nei crepacci non c’è salvezza per nessuno.

*Università di Warwick, dall’intervento tenuto a Roma lo scorso 5 aprile in occasione del seminario “C’è un futuro per il sindacato? Quale sindacato?”

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