Il bastone degli inganni

1 Aprile 2010

cubeddu

Mario Cubeddu

Nel  supermarket di elettrodomestici, alta fedeltà e informatica, il tempio delle merci più moderne,  accanto ai DVD delle immagini e ai CD dei suoni sono comparsi anche i libri. E qui il sardo ha un moto di orgoglio. Solo sullo scaffale dei vini potresti  scegliere tra un numero altrettanto significativo di prodotti sardi, capaci di competere con bottiglie importate.  Al supermarket ti fanno anche un bello sconto sul libro, forse quello che mette in crisi le piccole librerie. Trovi Milena Agus,  Marcello Fois,  Michela Murgia, Flavio Soriga. Ci sono i due volumi sopravalutati e supervenduti sulla criminalità sarda, scritti da un ex ufficiale dei carabinieri. E c’è l’ultimo libro di Salvatore Niffoi, “Il bastone dei miracoli”. L’edizione è sempre quella preziosa di Adelphi, una delle più prestigiose e raffinate.  Il nuovo romanzo di Niffoi racconta la vita di un omosessuale barbaricino vissuto  tra il 1915 e un giorno della fine del XX° secolo. Quasi si fossero messi d’accordo nel cancellare un’assenza nella narrativa sarda, molti autori hanno trattato un argomento simile. Con un ruolo già significativo in “Sardinia blues” di Flavio Soriga, il tema gay diventa centrale in “Stirpe” di Marcello Fois e qui innerva decisamente la trama. Il bastone del titolo è simbolo fallico del potere maschile e patriarcale. Purtroppo ha a che fare anche con”su mazzuccu” e con tutta la paccottiglia che si è accompagnata al mito de “s’accabadora”. “Quelli che ne erano venuti in possesso…erano…morti in fretta e sorridendo”, dice la voce narrante a proposito dei poteri magici del bastone. Gli elementi che richiamano la fase attuale della mercificazione folcloristica di una cultura sarda presunta vanno dalle apparizioni della problematica maschera di Su Bundu all’invenzione di “Iridina Monteddada, la divinità luminosa e claudicante venuta dal cielo dopo un grande temporale per mangiare i deboli e lasciare solo i forti”.  Il protagonista  acquisisce il bastone con l’inganno, pur non avendone alcun diritto. Non lo ha perché è omosessuale, non lo ha perché nasconde il suo esserlo, non lo ha perché prepotente, malvagio e subdolo? L’autore non sembra propendere per una interpretazione piuttosto che per un’altra. In realtà “s’Uste” (un presunto nome arcaico del bastone: l’uso del sardo dilaga, ma sempre in un ruolo subalterno) è poco più che una decorazione etnica e marginale del racconto. Ciò che importa sono gli uomini, le loro vite, i loro destini. L’autore presenta “pezzi di tante storie. Quella di Paulu Anzone, noto Muscadellu….le rappresenta tutte, col male e il bene che c’è in ogni essere umano.” Anche se si fatica a trovare qualcosa di buono nel protagonista. “Ja it ora de crepare” , dicono gli operai a sigillo della sua tomba, parere in gran parte condiviso da chi racconta. La vicenda del protagonista omosessuale è decisamente irrisolta. A partire da un’inutile evirazione, aggiunta a un’essenza nativa di “feminedda”, già intuita dall’ambiente paesano.   L’accenno conclusivo a un riscatto umano non riesce a cancellare la ferocia del rapporto con la madre e con tutto quello che non sia l’uomo amato. La drammatica violenza dei rapporti tra i singoli, l’assenza, non solo di amore ma di pietà umana, la spietatezza dei rapporti di forza, economici e individuali, ricordano la “filosofia di vita ” di Rosso Malpelo e le vicende narrate da Federico Tozzi. E’ la logica feroce della roba, con la particolarità che in questo mondo essa non si acquisisce con la fatica quotidiana, ripetuta giorno dopo giorno sui campi, o dietro il gregge, dall’alba al tramonto. No, qui i patrimoni sono il frutto della rapina, dell’abigeato, del sequestro e dell’uccisione delle persone. La sopraffazione dell’altro per spogliarlo di tutto quello che ha è il “bastone dei miracoli” che consente il mutamento sociale. Sulla forza bruta si reggono i titoli nobiliari e si pongono le fondamenta dei palazzi, la violenza sostiene l’economia e la politica. “Vida bona, morte bona”: il giudizio ha un senso tutto laico e terreno, lo sapevamo già da Satta. Ma la morte in questo mondo non riscatta nessuno; si fatica a immaginare che “un contadino laborioso, un uomo onesto, un marito fedele, un padre affettuoso” esali un ultimo respiro quieto e rasserenato.  E’ sorprendente trovare in questo romanzo la ferocia della lotta di classe in chiave barbaricina. Niffoi rompe in maniera decisa l’idillio egualitario immaginato e disegnato da molti scrittori sardi.  Chi non è “forte”, non è cioè in grado di esercitare una forma di dominio sugli altri, deve accettare la sottomissione e cercare di trarne tutti i vantaggi possibili. “Facendo i morti si rimane a galla e vivi”: è una triste filosofia, esposta naturalmente da una donna, elemento come sempre di massima coscienza nella narrativa di Niffoi.  Lo scrittore di Orani è senza dubbio uno tra gli scrittori sardi più dotati di talento. Il patrimonio di vicende, personaggi, luoghi e epoche della storia sarda,  la vita lunga delle centinaia di villaggi, quelli barbaricini come tutti gli altri,  il lavoro nelle campagne, trovano in lui un cantore capace di capire, sentire, raccontare. Niffoi è formidabile nello scorcio con cui disegna un personaggio e un destino. Non ha bisogno di inventare mitologie. Basta e avanza immaginare come erano i nostri padri e nonni e descrivere quello che siamo diventati.

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