Il caos mediorientale per l’egemonia nel Golfo

1 Ottobre 2015
Francesco-Guadagnuolo-Pace-in-Terra-Santa-
Gianfranco Sabattini

Il Medio Oriente è al centro di un caos inestricabile. Come viene detto nell’Editoriale del n. 5/2015 di “Limes” (“Il Congresso del Golfo e i suoi nemici”), la posta in gioco è se il Golfo che lo delimita debba essere Persico o Arabico; se in esso vi debba prevalere l’Iran o l’Arabia Saudita, ciascuno con i propri satelliti. Ciò perché, dominare il Golfo significa acquisire una posizione egemone sull’intera area compresa tra il Mar Rosso e il Mare Arabico; si tratta di un’area strategica, dove si trovano i due terzi delle riserve petrolifere e un terzo di quelle gasiere dell’intero pianeta: “Epicentro dell’ecumene musulmana, ma soprattutto “faglia critica” dei rapporti di forza tra arabi e persiani.
Tra l’Ottocento e il Novecento, dopo la disintegrazione dell’impero ottomano, l’area era stata assegnata all’influenza della Gran Bretagna, prima, e degli Stati Uniti, poi; ma quando questi ultimi hanno ridotto notevolmente la loro sovraesposizione nell’area, per aumentare la loro presenza nell’Oceano Pacifico, l’egemonia delle superpotenze occidentali si è affievolita, anche se il loro interesse per il “controllo” dell’area, in virtù della presenza delle riserve petrolifere e gasiere non tende ad azzerarsi.
Gli attori della crisi del Golfo non si riducono ai soli Iran e Arabia Saudita; ad essi vanno aggiunte le altre due potenze regionali: la Turchia e Israele. Sul piano della forza, nessuno dei quattro attori regionali ha le dimensioni necessarie per poter divenire l’egemone assoluto, in quanto, come viene detto nell’Editoriale di “Limes”, nessuno di essi ha la “taglia” sufficiente per acquisire una posizione dominante: “tutti sono sufficientemente forti per interdire l’acquisizione dell’egemonia da parte di ognuno. Né si intravedono all’orizzonte potenze extraregionali che possano o vogliano dirimere la vertenza”.
Gli Usa, la potenza che, in virtù dei suoi rapporti con molti Paesi dell’area, potrebbe svolgere un ruolo di pace e di ordine, tende a farlo “per delega”, senza un impegno diretto. Un’altra potenza che potrebbe contribuire alla diminuzione del caos è la Cina, perché interessata alle forniture di petrolio percorrendo rotte tranquille; ma l’idea di impegnarsi nella soluzione del “rompicapo” mediorientale è lontana dalle sue attuali intenzioni, essendo impegnata a realizzare il programma di Xi Jinping che prevede di portare la Cina sul “tetto del mondo”. Tutt’al più, essa potrebbe essere disposta a sostenere le azioni militari di alcuni Paesi del Golfo per la guerra al terrorismo, purché utili ai suoi esclusivi interessi.
Anche Mosca mostra di avere “le polveri bagnate” rispetto alla soluzione del problema mediorientale, sia perché interessata a ricuperare il rapporto con gli Stati Uniti, fortemente compromesso dalla crisi ucraina, ancora ben lontana dalla possibilità di una sua soluzione; sia perché interessata ad evitare che il terrorismo possa contaminare il Caucaso; sia, infine, perché orientata a far valere ciò che le resta della sua capacità di influenza nell’area del Golfo, per proteggere e salvaguardare Bassar al-Assad, all’interno di ciò che ancora sopravvive delle Siria. Rimane da considerare, infine, con la sua politica estera contraddittoria, l’Europa, per un verso legata alle “direttive” atlantiche per lo più fissate dagli USA e, per un altro verso propensa, non tanto ad impegnarsi in uno sforzo di pacificazione, quanto “ad alimentare le guerre in corso”, concludendo buoni affari con la fornitura di armi, “con speciale profitto per l’Arabia Saudita e i suoi sceiccati di servizio”.
Valutando congiuntamente le ambizioni degli attori regionali del Golfo e lo scarso impegno delle potenze extraregionali per assicurare una situazione di pace duratura, non è pessimistica la previsione dell’impossibilità di una prossima fine delle ostilità; in conseguenza di ciò è realistico ipotizzare che gli effetti destabilizzanti delle malcelate aspirazioni dei quattro principali protagonisti, Iran, Turchia, Israele e Arabia Saudita, ridondino sullo spazio euromediterraneo, creando instabilità per l’intera Europa. Inoltre, considerando che i “quattro” agiscono per soddisfare le loro pretese in uno spazio a demografia araba e che i primi tre non sono arabi, è facile capire quali pericoli sottendano le azioni dei contendenti e quanto precari potranno essere alla fine gli eventuali risultati conseguiti da ognuno di essi.
I primi due, Iran e Turchia, soffrono della sindrome della perdita della passata grandezza; essi si considerano gli eredi di due grandi imperi: quello persiano e quello ottomano. Il terzo, lo Stato ebraico, costantemente impegnato per la sua sopravvivenza, è costretto a “scegliere e a sciogliere” alleanze improbabili, ma strumentali per evitare d’essere rimosso dalle carte geografiche mediorientali; inoltre, Israele è una realtà statuale extraregionale, nato per riunire gli ebrei sparsi nel mondo e che non intende assimilarsi con nessuno dei suoi vicini. L’ultima, l’Arabia Saudita, non è uno Stato moderno, in quanto conserva ancora la natura di Stato patrimoniale, di proprietà di una famiglia regnante tormentata al suo interno dalle rivalità di svariate migliaia di principi che, invece che una forza, rappresentano il “tallone di Achille” del Regno.
Agli attori Iran e Arabia Saudita devono essere associati gli Stati che sono loro satelliti: al primo è ascrivibile la parte del Libano, della Siria, dell’Iraq e dello Yemen di fede sciita; alla seconda i componenti del “Consiglio di Cooperazione del Golfo, dai più affini Kuwait, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, all’eccentrico Qatar e al pragmatico Oman, che ama triangolare tanto con Riyad che con Teheran”.
Tutti gli osservatori, considerando lo scontro tra Iran e Arabia Saudita quello destinato a risultare decisivo, si domandano, innanzitutto se sarà il primo, grazie al compromesso atomico cui sembra disposto ad aprirsi per rilegittimarsi sulla scena internazionale, a costituire e a consolidare la sfera di interessi cui aspira; oppure se sarà Riyad a sconfiggere l’ensamble persiano-scita, per riportare alla sua “ubbidienza” le diverse comunità sunnite presenti negli Stati più instabili a causa delle guerre in corso (soprattutto Siria, Iraq e Yemen) alla sua “ubbidienza”; viene, inoltre, da domandarsi “come e in che misura” Stati Uniti, Russia, Cina ed Europa saranno disposti a lasciarsi coinvolgere per risolvere il rebus mediorientale.
Una soluzione possibile, se le superpotenze la condividessero e se gli attori locali fossero disposti ad accettarla, potrebbe consistere nell’eventuale proposta statunitense mutuabile dalla “realpolitik” di kissingeriana memoria, volta a realizzare nell’area del Golfo un classico “equilibrio di potenza”, in base al quale nessuno degli attori potrebbe aspirare ad acquisire una posizione egemone al suo interno: “Persiani e arabi, sciiti e sunniti – come osserva l’Editoriale di ‘Limes’ – devono riconoscersi reciprocamente pari nei diritti e nei doveri. Sulla sponda orientale, la Repubblica Islamica deve smettere di intromettersi negli affari arabo-sunniti […]. Quanto ai petromarchi della Penisola Arabica, accettino di grazia la realtà che impone loro la convivenza con il vicino d’Oltre Golfo […]. Gli israeliani stiano infine certi che a Washington qualcuno li ama e ne garantisce la sicurezza”.
Questa eventuale proposta, per quanto auspicabile, soffre di una stridente contraddizione: perché possa avere successo, l’equilibrio di potenza comporta, non solo l’accordo, a scopo di garanzia, con tutte le altre superpotenze, ma anche una partecipazione diretta e continua di tutti gli attori, mediorientali e non; ciò perché la pretesa di vigilare “da fuori” o guidare “da dietro” non è portatrice di sicurezza e di stabilità. Se poi, prescindendo dal ruolo dell’Europa, al carro degli USA, si considera che le superpotenze restanti, per i motivi anzidetti, sono tutte impegnate a risolvere problemi strategici per il governo delle loro future reciproche relazioni, si capisce che i più esposti agli effetti dell’instabilità dell’area del Golfo sono proprio i Paesi europei; ciò a causa della loro disunione, ma soprattutto perché “il Golfo è vicino”, mentre l’America, dalla qualeessi continuano a dipendere per fruire del suo ”ombrello protettivo” è, non solo geograficamente, molto lontana.

[Immagine: Francesco Guadagnuolo – Pace in Terra Santa]

 

Scrivi un commento


Ciascun commento potrà avere una lunghezza massima di 1500 battute.
Non sono ammessi commenti consecutivi.


caratteri disponibili

----------------------------------------------------------------------------------------
ALTRI ARTICOLI