La crisi? Vedrete che passerà

16 Marzo 2009

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Marco Ligas

‘Non bisogna drammatizzare, dice il Presidente del Consiglio; nel nostro paese non ci saranno situazioni di miseria, e poi le crisi ci sono sempre state ma poi finiscono’. Chissà se i lavoratori dell’Euroallumina o quelli degli appalti, e tutti coloro che stanno perdendo il lavoro la pensano allo stesso modo. Intanto l’Inps ha reso noti i dati dei lavoratori dipendenti che sono stati licenziati e che hanno presentato domanda di indennità di disoccupazione: nei soli mesi di gennaio e febbraio superano le 350.000 unità. È inutile analizzare la suddivisone per regioni perché tutte sono coinvolte con percentuali allarmanti. Non tutti i lavoratori però potranno avere l’indennità: può essere chiesta solo da chi ha versato i contributi per 52 settimane negli ultimi due anni o per 78 giorni nell’ultimo anno. C’è da chiedersi perciò quale prospettiva abbiano gli altri, soprattutto i precari che restano fuori da questo trattamento. Ma anche i più fortunati hanno poco da stare allegri perché l’indennità per chi non ha compiuto ancora i 50 anni coprirà soltanto 8 mesi e non 12 e l’assegno corrisposto non supererà il 60% dell’ultima retribuzione. L’ottimismo di Berlusconi non solo non trova riscontro nel paese reale ma neppure nel rapporto che gli esperti del Consiglio economico consegneranno ai capi di stato e di governo in occasione del prossimo vertice comunitario. Nel rapporto viene sottolineato come la recessione sia senza precedenti, la crisi colpisce duramente tutti e richiede un’azione urgente. Insomma, questo è il messaggio inequivocabile, servono interventi che rilancino l’occupazione e limitino la perdita dei posti di lavoro attualmente esistenti
Nonostante questi avvertimenti il governo tende a minimizzare gli effetti della crisi e rifiuta le misure che possono restituire fiducia ai lavoratori e alle famiglie colpite dalla recessione. Alle proposte tese all’introduzione della tassazione dei redditi finanziari o di quelli medio-alti, entrambe finalizzate alla ridistribuzione della ricchezza, risponde con sufficienza sostenendo che il governo non è Robin Hood. Stesso atteggiamento per le proposte che prevedono il reddito minimo di cittadinanza. Eppure questi obiettivi, che vengono proposti insistentemente dalle forze politiche e sindacali più sensibili, sono accompagnati da proposte di politiche attive per il lavoro, nella consapevolezza che oggi, in piena crisi, questa prospettiva si presenta complessa e delicata. Il rifiuto del reddito di cittadinanza mette in evidenza una remora ideologica e al tempo stesso una preoccupazione pratica: come se potesse minare l’idea del lavoro inteso come attività indispensabile e immodificabile ai fini del profitto. Sicuramente il reddito di cittadinanza può favorire la trasformazione del lavoro, la sua riduzione come fatica, ma non modifica la capacità lavorativa delle persone come prestatrici d’opera; può migliorare piuttosto il grado di autonomia e la libertà di scelta degli individui. C’è di più, con la diminuzione del lavoro alienato, l’uomo avrebbe più risorse e più tempo per dedicarsi  in modo più libero alla produzione di ciò che è socialmente più utile. Naturalmente il reddito di cittadinanza é uno strumento parziale, non necessariamente esclude altre misure che riguardano l’organizzazione del lavoro. Esiste infatti un rapporto di complementarietà con la riduzione dell’orario. E questa opportunità potrebbe essere valorizzata anziché essere considerata un tabù ideologico artificialmente costruito per non mettere in discussione categorie economiche come il profitto, ritenuto sempre più il fulcro dell’attività dell’uomo, anche in contrasto con i principi della nostra Carta Costituzionale. Il fatto è che, per il nostro governo, sia la riduzione dell’orario di lavoro sia il reddito di cittadinanza vengono considerati misure destinate a minare la struttura dell’organizzazione sociale. Non è solo il profitto che si cerca di tutelare ma anche le rendite, siano esse finanziarie o di altra natura. La determinazione con cui si rigettano le riforme relative ad un’imposizione fiscale più equilibrata nasce proprio da questa esigenza.  Gli interventi a cui abbiamo fatto riferimento non sono estranei alle vicende che stiamo vivendo attualmente in Sardegna. I lavoratori del Sulcis, ancora in piena mobilitazione tra scioperi e stazionamenti davanti alle fabbriche, si battono perché si arrivi ad una soluzione che sblocchi una volta per tutte la trattativa con le direzioni aziendali delle loro fabbriche e col governo. Imponente l’ultima manifestazione del 13 marzo: non poteva non essere chiamata in causa anche la Regione Sarda dove i nuovi cortigiani, sui problemi del lavoro, non mostrano oggi la stessa attenzione che hanno dedicato nel corso della campagna elettorale. Un obiettivo che deve coinvolgere tutti coloro che hanno a cuore la tutela del lavoro deve ripartire proprio da qui: dall’esigenza di individuare quei percorsi che possono creare occupazione e risposte coerenti ai bisogni dei cittadini, soprattutto di quelli che oggi sono più esposti agli effetti della crisi.

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