Il federalismo che divide

16 Settembre 2008

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Marco Ligas

C’è un gran parlare, in questa ripresa dell’attività politica, sulla reintroduzione dell’ICI. Com’è consuetudine di questo governo, si avanza un’ipotesi e subito dopo la si smentisce; ci si giustifica sostenendo che la stampa non capisce, fraintende, vuole creare falsi allarmi, insomma rema contro. Il premier parla di notizie criminali, qualche ministro giura che se ci sarà davvero la reintroduzione della tassa sugli immobili si darà fuoco davanti al palazzo del potere. Questo è il livello del dibattito.
Intanto il maggiore sostenitore del federalismo fiscale, il ministro Bossi, ribadisce la necessità di una tassa a favore delle casse comunali: non si chiami patrimoniale, la si definisca in altro modo, magari sui servizi, l’ultima trovata è tassa di scopo; insomma i Comuni devono pur sopravvivere. Anche i sindaci, di destra o di sinistra, ribadiscono questa necessità. Emerge così l’irresponsabilità di questa coalizione che per vincere le elezioni ha fatto il gioco delle tre carte promettendo ciò che nei fatti non poteva mantenere. È la stessa modalità seguita per Alitalia: sostenere l’esistenza di alternative alla cessione della compagnia ad Air France e poi creare una legge speciale di cui dovrebbero beneficiare i rappresentanti del nostro sistema industriale, naturalmente sostenuti dai contributi statali.
La reintroduzione di una nuova imposizione comunale, qualunque sia il nome che assumerà, anticipa il carattere dei nuovi indirizzi del federalismo fiscale. Per il momento non c’è niente di definito; ma già il cambiamento del nome insospettisce, fa pensare ad una legge che potrebbe colpire non solo i proprietari della prima casa ma anche i non proprietari in quanto usufruitori anch’essi di servizi! Come premessa per una politica distributiva non c’è proprio male, si inizia colpendo i redditi bassi. Ma al di là dell’ICI, c’è nell’impianto della bozza presentata da Calderoli una scelta ben definita che attribuisce alla riforma un carattere antimeridionalista. Per garantire i servizi essenziali (sanità, istruzione e assistenza) così come previsto dall’articolo 119 della Costituzione, si farà riferimento d’ora in poi ai costi standard dei servizi e questi verranno definiti dai costi sostenuti dalla Regione più efficiente. Ora non ci vuole molto a capire che le regioni più deboli, a causa della inadeguatezza delle strutture di cui dispongono, saranno ampiamente penalizzate e l’introduzione dei costi standard segnerà un peggioramento della qualità dei servizi erogati. L’argomentazione utilizzata per spiegare questa scelta è ambigua. Si dice infatti che le regioni non si impegnano adeguatamente quando lo Stato interviene erogando direttamente i costi delle prestazioni. Può essere vero, ma la politica della responsabilizzazione delle istituzioni non si traduce in realtà dall’oggi al domani e soprattutto non si realizza con i tagli di spesa,  ma attraverso operazioni complesse di educazione e moralizzazione delle istituzioni. Pensare che un taglio di spesa possa colmare un gap culturale che ha ragioni antiche nella storia del nostro paese è demagogico così come è arbitrario ritenere che le istituzioni del sud siano moralmente più compromesse di quelle del nord. La riduzione dei fondi perequativi a favore del sud è solo un atto di prevaricazione nei confronti di quelle popolazioni. E su queste questioni la bozza di Calderoli, approvata dal CdM, lascia molto a desiderare. Non a caso, nella sua proposta, si coglie un altro aspetto che troverà un sicuro consenso nei sostenitori del federalismo fiscale; esso  riguarda le entrate in eccesso ai costi standard: le Regioni più ricche ne potranno usufruire attraverso quelli che vengono definiti tributi propri derivati decisi dallo Stato. E’ evidente come il fondo perequativo, che verrà assegnato alle Regioni la cui capacità fiscale è insufficiente a coprire le uscite, risulterà tanto più contenuto tanto più cresceranno i tributi propri derivati.
Nei giorni scorsi il ministro Bossi ha affermato che bisogna smetterla una volta per tutte di sfruttare il nord. È un’affermazione che colpisce, sembra contro tendenza, almeno rispetto a quanto abbiamo imparato da giovani quando si sosteneva che nel nostro paese esisteva una questione meridionale causata dallo sfruttamento che agrari del sud e industriali del nord esercitavano contro le regioni meridionali. Oggi la realtà del nostro paese è cambiata notevolmente ma non è cambiato il maggiore tributo che ancora oggi le regioni del sud sono costrette a pagare anche a causa di quello sfruttamento. Sicuramente Bossi, nel sostenere le sue rivendicazioni, non ha preso in considerazione i processi che hanno determinato la maggiore ricchezza del nord, non ha tenuto conto per esempio del lavoro degli emigrati del sud e della ricchezza prodotta da quella forza lavoro, ricchezza fatta propria dalla borghesia del nord e usata in forme molteplici, sia migliorando i livelli di vita di quelle popolazioni sia perfezionando le strutture del sistema produttivo. Così come in passato la classe imprenditoriale si è appropriata del pluslavoro dei lavoratori del sud (ora usa la forza lavoro di immigrati di altri paesi) e dei finanziamenti pubblici delle regioni del mezzogiorno (vedi Rovelli), oggi intende perpetuare i privilegi di cui gode, vuole che le entrate fiscali rimangano in quelle regioni contro qualsiasi politica redistributiva prevista dalla nostra Costituzione. Anche in questa circostanza la nostra opposizione balbetta e appare disposta, per paura di perdere ulteriori consensi, ad accettare le condizioni che il governo vuole imporre. Credo che la nostra Regione abbia tante ragioni per esigere dal governo un impegno per la soluzione di alcune questioni fondamentali che condizionano la nostra autonomia e la nostra crescita economica e culturale. Gli interventi che servono hanno ben poco a che vedere col federalismo fiscale che viene proposto; riguardano piuttosto la posizione geografica dell’isola, il sistema dei trasporti, l’arretratezza delle infrastrutture necessarie per un sistema industriale che possa crescere nel rispetto dell’ambiente e usando le risorse che esistono nell’isola. Ma un’attenzione particolare meritano ancora le politiche del lavoro, quelle autentiche non i palliativi usati spesso in momenti di emergenza, e le politiche tese a restituire ai sardi le aree occupate dalle servitù militari che inquinano i nostri territori e provocano morti nel silenzio complice delle istituzioni. Al di fuori di questo percorso il federalismo fiscale è destinato a dividere ulteriormente le popolazioni e ad alimentare pericoli secessionistici.

1 Commento a “Il federalismo che divide”

  1. Francesco Cocco scrive:

    Ha ragione Marco : questo federalismo fiscale è destinato a dividerere. Vi è la necessità di un riordino del sistema tributario. Va ripristinato un potere impositivo delle autonomie locali, che già esisteva prima del ’72, anche per responsabilizzare le stesse che non sempre dimostrano oculatezza. Ma qui non siamo sulla via del riordino ma dello sfascio. Ed a preoccuparmi è loobiettivo “federalista” in questa situazione storica. Gramsci e Lussu ebbero una visione federalista che si ricollegava al pensiero democratico risorgimentale (Cattaneo). Qui si vuole il federalismo non per rcollegarsi alle componenti democratiche del Risorgimento, ma per per tornare ad un’Italia pre-unitaria. Ma è possibile pensare che con questo livello di classe politica (dal Nord al Sud) si possa iniziare un qualche serio processo di riordino e di riaggregazione dell’ Italia ??

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