Il missionario e il guerriero

1 Febbraio 2010

Parrocchia

Mario Cubeddu

Cinquanta anni fa dagli oratori, ma forse è meglio dire dall’Azione Cattolica, venivano i ragazzi sardi che avevano bisogno della raccomandazione del parroco per poter entrare a lavorare in FIAT. Oggi il discorso ritorna. La notizia è di quelle che fanno impressione: 5 milioni di euro per favorire le attività degli oratori delle parrocchie sarde. Si parla anche di”attività similari” e di altre “confessioni religiose con le quali lo Stato abbia stipulato intesa”. In realtà le cose sono molto chiare. Questi soldi sono destinati alle parrocchie, cioè ai ragazzi bianchi e cattolici provenienti da famiglie bianche e cattoliche. I margini di libertà in queste situazioni arrivano sino a un certo punto. Chi si impegna in questi settori lo fa anche e soprattutto per trasmettere la propria identità e i propri valori. Difficile immaginare un oratorio multiculturale, i cinesi accanto ai nord-africani e ai senegalesi. A fianco alle Parrocchie i giovani troveranno il campetto di calcio, la sala con il bigliardino e il ping pong? Ci saranno, ma si può pensare anche a un accesso controllato a Internet, a sale musicali, a attività teatrali. Tutti settori in cui la tradizione educativa delle scuole gestite da religiosi ha maturato una lunga esperienza. Quindi dovremmo pensare a una improvvisa rivitalizzazione, a un attivismo diffuso che dovrebbe fare di nuovo delle case parrocchiali il centro sociale e culturale delle Comunità sarde? La cosa si presenta difficile da realizzare, oltre che settaria ed escludente. Il settore pubblico delega ancora una volta le sue responsabilità a una struttura di parte. Come nel settore dell’istruzione, così in quello dell’animazione/aggregazione sociale ci si affida a strutture su cui lo Stato e la Regione non eserciteranno alcun controllo. I protocolli d’intesa con la Conferenza Episcopale difficilmente potranno imporre ai vertici della Chiesa sarda un controllo sul personale destinato a queste attività. E’ probabile che questo diventi un nuovo centro di potere, un’altra fonte di occupazione precaria per giovani che dovranno adeguarsi alle regole stabilite dai Vescovi. E’ un obiettivo difficile da raggiungere, quello che sembra proporsi chi ritiene di risolvere problemi di oggi con una struttura di altri tempi. Anche mettendo in campo cifre così consistenti. Per giunta l’attività di animazione e aggregazione di origine religiosa ha avuto in Sardegna una vita difficile e stentata. I problemi dei paesi sardi o delle periferie cittadine, specie in rapporto alle condizioni di disagio dei giovani, sono strutturali. Difficili da affrontare e da risolvere. A meno che non si voglia far credere che l’assenza di vitalità attorno alle Parrocchie, il distacco dei giovani dalla Chiesa, siano solo una questione di mancanza di fondi. Non si può certo dire che la Chiesa italiana, e quella sarda, oggi siano povere. In questi casi non è questione di denaro. Ma può essere, ad esempio, questione di tradizione. Nei nostri paesi le forme di aggregazione difficilmente hanno contemplato l’oratorio in senso classico, anche nei tempi di una presenza pervasiva della Chiesa nella società. In Sardegna il clero ha avuto una mentalità notabilare, più che comportamenti capaci di animare la vita sociale. La nostra isola è stata e continua ad essere, in un certo senso, terra di missione. Arrivavano e arrivano dall’Italia del Nord religiosi regolari, o laici intraprendenti, a smuovere la situazione, a reclutare e inquadrare l’anarchia sarda. Come è avvenuto e avviene per la presenza della Chiesa cattolica in terra di missione. Dove, come da noi, non si arriva mai a un cambiamento reale, alla trasformazione dei soggetti dipendenti in persone libere e autonome. Perché chi va in terra di missione, pur con le migliori intenzioni, finisce per imporre il proprio modello, lasciando persone immature e subalterne. Prendere in mano la propria vita è invece una scommessa, l’azzardo della rivolta di chi decide in modo maturo di crescere da solo. Non alla Chiesa, ma ai suoi giovani la Regione sarda dovrebbe affidare la gestione dei centri di aggregazione sociale. Ci sono professionalità, ci sono intelligenze, ci sono animi coraggiosi. Solo dando fiducia alla gioventù sarda si può avere la speranza di combattere il disagio minorile.  La Curia romana, la cui intelligenza nessuno osa mettere in dubbio, ha valutato certamente il senso simbolico della sua scelta, quando ha deciso di mandare a “governare” la Chiesa sarda il responsabile nazionale dei cappellani militari. Ribadendo così che il ruolo che il popolo sardo ha nella storia contemporanea è stato fissato per sempre nelle trincee della Grande Guerra. I nostri nonni ci hanno lasciato la maledizione di essere considerati bravi guerrieri, pazienti, silenziosi, fedeli. Incapaci però di governarsi da sé. E quindi, bisognosi di guida: è necessario indicare loro chi votare, chiamando il Presidente del Consiglio accanto a sé per dire a chi ci dobbiamo affidare, privilegiando leader il cui sangue non è compromesso dai secoli della intemperie sarda. Berlusconi, Cappellacci, La Spisa costituiscono il trio di potere consacrato dalla benedizione curiale. Oggi sono chiamati a rendere il favore. Lo fanno con generosità, come sempre hanno fatto i politici in Sardegna. Di qualsiasi colore fossero. Questa decisione del Consiglio Regionale sardo passa con l’astensione di 19 consiglieri del PD e dell’IDV e due soli voti contrari. Nessun problema per i democratici se l’animazione sociale viene delegata alla Chiesa; zitti e ossequiosi come sempre. In realtà non si ha mai il coraggio di dire qualcosa che possa suonare sgradito alle gerarchie. Ignorando che, in particolare in Italia, solo un conflitto esplicito, duro, reale, è “democratico”.  Un pessimo inizio per un partito che in Sardegna non sembra avere mai niente da dire di sostanzialmente diverso dal centro-destra su tante questioni decisive per la nostra identità storica e culturale, spirituale e morale.

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