Il suicidio

16 Dicembre 2019

Banksy, ragazza farfalla

[Marinella Lőrinczi]

Pubblichiamo “il suicidio”, un nuovo racconto di Marinella Lőrinczi.

La piazzetta, interamente pedonale, era circondata da un cerchio di edifici alti e importanti come una fortezza protettiva, uffici, banche, negozi e palazzi a più piani che davano dall’altra parte, su un’arteria importante, come ingresso principale, e verso la piazzetta avevano tante finestre e finestrelle, tante uscite secondarie, di servizio, porticine al pianterreno, piccole e basse. All’ora di pranzo o dopo la chiusura o anche al mattino presto, scie di impiegati, commesse e commessi in divisa, clienti, entravano e uscivano come formichine, così si vedeva dall’alto. Qualcuno passava di corsa tra gli edifici, nell’intercapedine antincendio, scacciato dalla rumorosa strada principale, ma altri usavano proprio gli atri degli edifici come fossero in una stazione dei treni, entravano da una parte e ne uscivano dall’altra. Veniva tollerato.

Si sedevano ai tavoli dei numerosi bar, dentro o fuori a seconda delle stagioni, o sulle panchine, per mettere qualcosa sotto i denti o solo per tirare un po’ il fiato, per prendere un po’ di sole, per scambiarsi un solito “come stai?”, “e la famiglia?”, e poi dei più impegnativi “sei guarito dall’influenza? ma ti eri vaccinato?”, “cos’è quella storia di quella tale investita?”, “e di quel bambino scomparso cosa ne sai?”, “ah, sai, stanotte ho fatto un sogno così strano!”, “te lo ricordi? raccontamelo, io non sogno quasi mai; e se sogno, non me lo ricordo”. C’era qualche venditore ambulante che se non altro riceveva un caffè e una pasta pagati da qualcuno. C’era qualche giornalista che si tratteneva, al suo solito tavolo, finché non finiva l’articolo, chiacchierando ogni tanto col barista e con colleghi o con chiunque ne avesse voglia.

Era lo spettacolo vivace della piazza che lo attraeva, in fondo, sapeva che lì seduti in compagnia la gente si raccontava storie interessanti, pettegolezzi comici, intimi, sboccati; ma gli altri sapevano che lui sapeva, altroché!, e si erano passati la parola per sedersi, con una scusa o dopo un saluto e un sorriso, al suo tavolino e farsi offrire un caffè o altro in cambio di qualche storiella vera o inventata, o per un semplice scambio di opinioni sugli ultimi fatti della politica e dei politici. Anche da questo si poteva ricavare qualche articolo su come la pensa la gente.

“Che scroccone anche lui, scroccone di idee ” diceva la gente per non sentirsi in debito … “e lo pagano pure” … “ma questo è un lavoro vero?” … “però è simpatico” … “ti lascia parlare e non t’interrompe”… “così ci sfoghiamo gratis, anzi ci ricompensa pure, tanto anche lo psicologo prende appunti, non c’è molta differenza”. Ma poi avevano da ridire su quel che pubblicava, “ma non era così!” … “imbroglia le carte”. E di nuovo giù a spettegolare.

Il giornalista si era lentamente specializzato nello scrivere a intervalli la cronistoria della piazza, stravolgendola quel tanto da non far riconoscere i suoi personaggi. Ne succedevano di cose, ogni tanto. L’altra sera un ubriaco si era parato davanti a un adolescente impacciato, pallido e filiforme, sbraitando e toccandosi i genitali, scuotendo scompostamente il basso ventre, “portami da tua madre, vedrai come l’accontento, non come tuo padre! Guardate che risultato!”. Il ragazzo lo guardava esterrefatto. Però quello aveva ragione, in un certo senso. Tutti sapevano che i due genitori erano dei menefreghisti, lui che si preoccupava della rasatura artistica del cranio, ogni mese, non appena ricrescevano un po’ i capelli, con disegni geometrici diversi, lei invece delle lunghe unghie multicolori e delle ciglia finte nero antracite e della sempre insufficiente aderenza dei pantaloni lucidi, finta pelle, a delle gambe appena accettabili. Per non parlare del culo bene in vista sotto i giacchini corti alla merkel. Qualcuno rise, abbastanza controvoglia, ma l’uomo urlante venne allontanato a spintoni e qualcosa di più.

C’era stata poi quella povera donna malvestita dall’aria depressa che arrivava spesso a cercare suo marito circondato da bottiglie di birra e da altri clienti mezzo avvinazzati, per portarlo a casa non senza accuse reciproche di vita noiosa e insopportabile e precaria, tra lo sghignazzamento degli amici di lui. Amici …

Abitavano in un altro quartiere, nel quartiere detto basso. Non troppo lontano. Un giorno lei venne investita e la gente si domandava ancora se era investimento o suicidio. Della donna si sapeva che era una casalinga (diventata casalinga dopo il prepensionamento) realmente sofferente di depressione, e si curava male mentre il marito proprio non se ne curava. Nella famiglia di lei c’erano già stati precedenti di depressioni e di suicidi.

Il giornalista decise di indagare sulla morte della donna. Si sentiva all’altezza, per deliberazione popolare, di un compito tanto difficile e delicato. Era accaduto qualche settimana addietro, in una giornata di calura africana, con lo scirocco che inebetiva. Ha chiesto dove abitasse e si è fatto indicare il luogo dell’incidente. Ha esaminato lo scenario. Ha letto certi dettagli tecnici dell’investimento negli uffici della polizia urbana. E ha cercato di ricostruire.

Dal livello della strada dove la donna aveva perso la vita, appena scesa dal marciapiede, una rampa di scale portava verso un livello più basso. La rampa era un varco in un muro piuttosto alto che separava la strada da quella parte del quartiere che era ben sotto il livello della strada. Era un tardo pomeriggio ma il sole bruciava ancora. La breve ma ripidissima scala era poco invitante. Si vedeva bene soltanto metà dei gradini sbreccati e ciascun orlo frastagliato gettava sul gradino sottostante triangoli d’ombra che sembravano buchi o crepe. Bisognava stare attenti a dove si mettevano i piedi. Quel gioco d’ombre e di luce confondeva la vista. L’altra metà dei gradini, in basso, era oscurata anche da qualche ombra di albero e la fine della scalinata dall’alto non si vedeva bene. Da su si captava come una frescura da pozzo, che saliva in pochi filini tremuli.

Decise di scendere in quel falso abisso e il corrimano di ferro cui era più prudente aggrapparsi bruciò come il manico di una padella. Superata la barriera tra luce e ombra si fermò un attimo e con gli occhi ancora accecati dal sole intravide le sagome di quelle insolite costruzioni. Il dislivello rispetto alla strada sarà stato di una trentina di gradini ripidi e disseminati di spazzatura, forse qualcuno in più, decisamente di più, e una volta toccato il pavimento dello spiazzo, il rumore del traffico cessò come per incanto.

Laggiù era tranquillo e soleggiato, ma di un calore mite e dolce, non bianco e non investiva come un’onda d’urto, era dorato con sfumature verdoline e accarezzava mollemente. La potatura orizzontale degli alberi aveva creato un sottile pergolato intrecciato di rami e di foglie che filtrava e colorava la luce del sole. Sotto i ciuffi di alberi c’erano panchine, ma a quell’ora nessuno vi era seduto. La gente era al lavoro o in casa, i ragazzi ancora in giro. Allora si sedette.

Era ancora accaldata ed esausta per la violenza del sole di sopra. I tenui rumori naturali erano rilassanti: qualche cicala sperduta, qualche uccellino inesperto che non sapeva ancora di dover risparmiare le forze nei momenti più caldi della giornata, il frusciare lievissimo delle piccole foglie.

Poggia per terra le due buste di plastica dove andavano avvizzendosi rapidamente alcuni cespi di lattuga e di sedano. Le buste si afflosciano come meduse morte, con ciuffi verdastri che sbucano da tutte le parti. Non se ne cura, tanto sono quasi da buttar via. Suo marito vuole verdura fresca per pranzo e cena. E tre portate. Nemmeno lei è in condizioni migliori delle sue verdure. Si percepisce come una poltiglia maleodorante gettata su quella panchina. Il fresco, l’ombra e il silenzio fanno però il loro effetto e pian piano riesce a raddrizzarsi. Si guarda intorno con occhi più vivaci, scorge una fontanella, apre il rubinetto e si bagna un po’ la testa, la nuca e i polsi. L’aveva visto in qualche film, dove l’attrice, dopo una scena di litigio violento col suo amante, va in bagno a calmarsi facendo scorrere l’acqua sui polsi che si massaggia con gesti eleganti. Sulla mano sinistra la fede, sulla destra un anello con brillanti. Lei niente brillanti, la fede non riesce più a sfilarsela dal dito gonfio con le giunture ingrossate. Si bagna anche la braccia, ci pensa un po’, si sfila il sandali uno alla volta e stende sotto il rubinetto anche i piedi e le gambe.

Ora si sente un’altra.

Lascia lì le due buste e incomincia a gironzolare intorno agli edifici che l’avevano colpita già la prima volta che li aveva visti. Le persiane sono per lo più socchiuse e laddove mancano i balconcini, sventolano appena, sui fili stesi tra una finestra e l’altra, costumi da bagno colorati, piccoli indumenti da bambini e qualche triangolo più grande, da adulti. Ci sono ancora poche macchine, tutte col muso rivolto verso le case, come tanti cagnolini intorno alla scodella dalla pappa. Dalle finestre più basse sgusciano fuori i soliti rumori casalinghi che accompagnano i vari momenti che precedono i pasti, le percussioni dei piatti, delle pentole e delle posate, ognuno col suo timbro caratteristico, che si uniscono in un preludio alla cena. Sopra questi rumori aleggiano gli odorini profumati all’aglio e al basilico. Questo le fa venire in mente che anche lei deve affrettarsi, la cucina aspetta anche lei. Invece non se la sente proprio di affrontare il caldo della cucina. Né suo marito sudato che siede nella poltrona, in canottiera, davanti alla finestra aperta.

Vuole ancora riposarsi un po’, si guarda in giro per avere qualche scusa per sostarci ancora. Esamina più attentamente le case. Ce ne sono due, unite all’ultimo piano, al terzo, da un ponte chiuso munito anche di una finestra, ad una sola arcata. Forse collega le due parti di un unico grande appartamento. Dal centro del ponte pende un lampione appeso ad una catena lunga due piani, ancorata con altre due catene più fini alle due case, in modo che non dondoli troppo quando soffia il vento. Gl ingressi delle due case gemelle siamesi sono una di fronte all’altra, sotto l’arco. Immagina che tutto nelle due case debba essere simmetrico, persino gli orari degli inquilini. Intorno al giallino rococò della palazzina sdoppiata si scorgono tre grandi macchie colorate che sono gli intonaci di altrettante case più basse, una vieux rose, una di un azzurro mantello della Madonna e la terza color avorio. Tutte e tre guardano con riverenza verso l’edificio centrale. Si mette a bighellonare tra le case e si perde nella contemplazione dei triangoli, quadrati, rettangoli, losanghe che nelle varie sfumature del colore di base compongono i muri esposti alla luce e alle ombre. Un puzzle gigantesco di soli colori che caleidoscopicamente sta mutando, lentamente e senza sosta, il rettangolo si trasforma in trapezio, il trapezio si chiude in un triangolo, il triangolo diventa una linea divisoria. L’aria diventa impercettibilmente più fresca, i colori incupiscono. Il sole si è spostato dall’altra parte. Si sente svuotata di ogni tensione e di ogni rancore. E’ fresca e riposata e sente un sano languorino. E’ ora di rientrare. Quanto tempo avrà trascorso quaggiù? Riuscirà a sopportare persino suo marito.

 

Afferra le due borse mosce e si precipita su per le scale, al livello superiore. Il caldo torrido la blocca bruscamente da farle quasi perdere l’equilibrio. Il sole la schiaffeggia violentemente, tanto da farle lacrimare gli occhi. Sul bordo del marciapiede fruga nella borsa alla ricerca degli occhiali da sole. Ma trova invece il cellulare, oddio, devo telefonare a casa che sto rientrando. Chissà che scenate mi aspettano, porte sbattute, magari anche parolacce. La cucina sarà piena di piatti e padelle con i resti bruciacchiati di una frittata al formaggio cucinata maldestramente. Dovrò metterli a mollo e poi grattarli prima di lavarli. A mano perché la lavatrice si è guastata e nessuno ha voglia di occuparsene. Con gli occhi incerti cerca di comporre il numero e mentre vuole attraversare tutta agitata sulle strisce tremolanti del passaggio pedonale sta ancora guardando lo schermo del telefonino. Se lo porta all’orecchio. Si sente lo squillo. Nel rumore del traffico, coll’orecchio tappato, con la mente persa, non vede e non sente la macchina che si sta avvicinando. Questa la investe in pieno. Anche il conducente ha gli occhi incollati sul suo cellulare. Al botto si guarda intorno e non capisce niente. Camminava quasi a passo d’uomo. Non vede niente. Vede solo, di lato, un sacco di plastica con delle verdure che è rotolato nella cunetta. Quando scende, davanti alla macchina giace storta la donna con in mano il cellulare. “Mi si è buttata sotto!”, grida rauco. Poi arriva la polizia e l’ambulanza. Non c’è più niente da fare se non il verbale. Questa è la sorte dei perdenti …

Prima di pubblicarlo, il giornalista distribuisce copie del suo racconto ai suoi fans per saggiarne le reazioni. Tutta la piazza si mette in agitazione, tra il commosso e l’indignato. Si formano capannelli. Non sapendo da quale parte stare se la prendono coi telefonini. “Ma è andata proprio così?” chiedono dopo averlo letto. “Che dice la polizia, come è successo secondo loro?” “Non hanno potuto dimostrare che il conducente della macchina stava usando il telefonino” riferisce il giornalista. “Se non è vero è ben trovato. Oramai, come in Corea, quella del sud, dovremmo avere le strisce pedonali comandate da un’intelligenza artificiale che pensi al nostro posto” sentenziano i più informati nelle cose del mondo.

Però si è d’accordo che il racconto, o l’accaduto, è esemplare, per la questione del telefonino. “Lo si dovrebbe far leggere a scuola”, dice uno che non sa come far capire a sua figlia preadolescente che per strada si deve guardare dove si mettono i piedi. Una volta, durante una gita multifamigliare in montagna, la guida a un certo punto ha detto bruscamente, dopo che un ragazzino stava per scivolare giù dal sentiero, di mettere via i cellulari perché le due braccia e mani devono essere libere per bilanciarsi ed afferrare, e l’attenzione e la vista e l’orecchio sono per il camminare e per la natura. “Ma sono solo alberi, tutti uguali”, dice uno, mingherlino e quasi ingobbito come un vecchietto dal troppo stare davanti ai videoaggeggi elettronici. Altrimenti potevano restarsene anche a casa. I genitori impauriti per l’incidente appena evitato hanno tuttavia protestato, debolmente in verità, “ma che modi” … “sono solo dei ragazzini” … “impareranno” … Ma era una guida e non un genitore che oggidì non ha nessuna autorità, è da rottamare e basta. Al massimo serve come cassa di prelievo continua. Volevano tornare sani e salvi, senza braccia rotte? Bene! Occhio a dove si cammina, punto e basta!

“Troppo tardi, oramai i ragazzini sono stati dichiarati millenniali digitali nativi, figurati un po’ come si sentono ringalluzziti dall’essere chiamati così, anche se non sanno che cazzo significa, beh – abbozza una scusa formale che non corrisponde a ciò che pensa veramente – lo dico perché le persone imparate oramai così parlano in tivvù, io che ho fatto soltanto una scuola professionale, il nautico, mi adeguo; si sentono un’altra specie – continua – superiore, ma in fondo è giusto dire così, digitali nativi, credo che la prima cosa che sentono al mondo non è la tetta della mamma, ma è lo smartefon, se non della mamma stessa, del personale che sta intorno, tutto tecnodigitalizzato, o dell’orgoglioso neopapà che manda foto a destra e manca, a chi interessa e a chi no.” “L’imprinting di Lorenz, come per le oche o per i cormorani pescatori dei cinesi – insegna guardandosi intorno un professore di scienze, però poi cede – ma imprintati al telefonino e non al volare o al pescare, almeno farebbero del moto, sono dei postumanoidi monobraccio – dice con acredine – e con una sola mano, disabili funzionali, perché nell’altra tengono incollato il telefonino anche quando dormono o fanno finta di dormire.” “Infatti, a volte la mattina è tutto suonato e non riesce a svegliarsi per andare a scuola, eppure la sveglia suona nel telefonino. Prima o poi lo butto dalla finestra”. “Chi dei due?” ironizza un altro che ha lo stesso problema con le due figlie gemelle che si coprono a vicenda. “Però – si intromette la barista sopra la cui testa si legge, pedagogicamente scritto, “Non accettiamo ordinazioni mentre il/la gentile cliente è impegnato/a al cellulare” e quindi ha il diritto di esporre la sua  – di cosa ci meravigliamo, l’altro giorno ho visto una nonna, una nonna!, nemmeno giovane, che spingeva, muta e con gli occhi bassi rassegnati, la nipotina di poco più di due anni in carrozzina e anziché parlare con sua nonna e guardarsi intorno, la piccolina giocava al videogioco. I genitori le avranno consegnato la nipotina con tutta la attrezzatura, pannolino di ricambio, bottiglietta d’acqua o succo di frutta e tablet, da portare al parco. Mancava soltanto che la nonna stesse nel frattempo telefonando con la destra, spingendo il passeggino con la sola mano sinistra e attraversando così la strada, dove capitava. Così anche lei dimostrava di essere moderna e tecnologizzata.” “Come il ciclista che attraversa sullo zebra in un lampo con gli occhi sul cellulare, manco lo vedi.” – a uno era capitato proprio questo, se l’è vista brutta.

“Però il racconto non va bene per la scuola – svia il discorso un altro – quella storia di coppia non è mica un bell’esempio”. “Sempre meglio delle coppie separate che litigano per i figli e per i soldi, avete visto come è finita per Gianni, né figli né soldi, dorme in macchina e mangia scatolette, se non addirittura quelle per i gatti. Genitori così ce ne sono in tutte le classi, non è una novità per i ragazzi. E la moglie si è messa con un altro – del resto anche lui si era messa ancor prima con un’altra molto più giovane che poi l’ha piantato – ma l’ex moglie e l’altro non si sono sposati, cosicché Gianni deve passarle gli alimenti che non ha nemmeno per se stesso. Ancora un po’ e l’ammazza, e non sarebbe il primo.”

Poi votano democraticamente se farlo pubblicare. Vince il sì. E’ come se dietro il racconto ci fosse un invisibile battaglione di tifosi contro l’uso sconsiderato del cellulare. Tutti si rilassano bevendo qualcosa. Offre il giornalista. Ma non è ancora convinto del valore del voto. Ci penserà. Si domanda tra sé e sé perché alcuni non erano d’accordo. A questi non sarà piaciuto. Sarebbe interessante saperlo, ma nel frattempo se ne sono andati. E’ un po’ offeso, in verità. Avrebbe voluto l’unanimità. Quelli del “no” saranno stati dei telefoninodipendenti irrecuperabili, che non ti sanno più parlare direttamente, guardandoti, o anche quando lo fanno sono con gli occhi incollati sullo schermo e ti rispondono a casaccio.

Riflette, il giornalista. Dovrà premettere anzitutto, se lo pubblica, che “sebbene ispirato a fatti realmente accaduti, si tratta di una storia di invenzione.” Invenzione sì, ma solo per il futuro lettore, se ce ne sarà, mentre nella piazzetta molti sanno che la finzione sta solo in certi dettagli, quel che è realmente accaduto è il resto, il nocciolo duro. Ma quali dettagli? Qua li voglio! Verità indefinita più dettagli inventati in quantità aleatoria, uguale racconto. O balla. Dipende dalle proporzioni, da chi lo dice e dove lo dice. Scommette con se stesso. Vedrai che domani arrivano con i commenti della famiglia, delle mogli soprattutto, o delle figlie, che staranno dalla parte della morta, ci scommetti? Non hai mica chiesto loro di tenere la bocca cucita finché non viene pubblicato. Avresti dovuto, così, questione di copirait, per forma se non altro, tanto non vedranno l’ora di vantarsene in casa, dandosi un sacco di importanza per aver collaborato. E aggiungendoci materia spuria, nessuno glielo impedisce, e tu men che meno, intelligentone. E li hai fatto pure votare e poi ti hanno scroccato il caffè e la birra, come compenso di partecipazione. Il giorno dopo, o nei giorni successivi, sarebbero arrivati alla spicciolata, ognuno con una storia diversa, rifatta sui commenti domestici, magari annotati sul retro dei fogli o sul margine. Poi litigheranno tra di loro, per dimostrare di chi è la storia più vera e confronteranno le versioni. E non si capirà più niente.

Meglio affrettarsi a pubblicare il racconto così com’è. Per lo meno potrà averne il primato, gli altri si arrangino, si inventino quel che vogliono. Ma dopo la mia pubblicazione. Ora corro in redazione, ma prima un altro caffè. Il gradimento del pubblico è già assicurato. “Cameriere!” – fa il gesto della tazzina che viene svuotata. “Anche un bicchiere d’acqua, per favore!”

Riflette ancora bevendo il caffè. Le storie truculente tirano sempre. Se imbocco questa strada, non c’è scampo. Se io e i lettori ci prendiamo gusto, diventerà come una droga, ce ne vorrà sempre una nuova e più scioccante. Ma forse le donne rendono il compito facile, intorno a loro le storie tragiche o commoventi non finiscono mai, chi se ne intende lo ha già constatato. Si insegna questo nei corsi di letteratura, Virginia Woolf e compagnia bella. Dunque, puntiamo sulle donne. Bisogna pur vivere.

Ma le cose non andarono proprio così. Passarono alcuni giorni. I mariti o i fidanzati o i fratelli o gli zii o i nonni tornarono alquanto frastornati dalle scomposte reazioni domestiche. Stavano intorno al tavolo in posizioni scomode e rigide e non sapevano come incominciare la conversazione. Dicevano soltanto banalità all’inglese, il tempo è bello, la giornata pure, e come stai. Si udivano più forti le ordinazioni, che però non comprendevano alcolici. Erano diventati tutti astemi, di colpo. Mentre ognuno sapeva di sé perché menava il can per l’aia, non capiva gli altri, mogi quanto lui. Non si parlava affatto del racconto del giornalista, vero o inventato che fosse. A loro era stato rivelato a casa un aspetto ignoto della vita che credevano riguardasse sempre altri, non loro, mai, esseri immuni alle bassezze altrui. Loro erano ovviamente al di sopra di ogni sospetto.

Da quanto si è poi capito, dando un senso alle frasi spezzettate, ai racconti monchi per pudore o per mancanza di dettagli, o alle domande e risposte che volevano soltanto far capire o suggerire gli accaduti, era andata così, in fondo allo stesso modo per tutti. Avevano letto, o riassunto, o raccontato, o fatto leggere la storia descritta dal giornalista, ma le donne di casa la sapevano più lunga, perché funzionano anche i canali d’informazione femminili, sapevano molto di più sulla coppia in questione. E ne è venuto fuori questo:

Il marito, quando era giovane, era un bell’uomo a modo suo, e anche lei era stata una giovane donna graziosa e vivace, pieni di vita tutti e due. Con buoni impieghi, niente di speciale ma solidi. Lui, bibliotecario in una bella biblioteca comunale, ben frequentata da grandi e piccini, lei segretaria di un certo ufficio, dove aveva anche lei occasione di incontrare tante persone. Per via di tutti gli impegni di lavoro e di frequentazione sociale, in una maniera statisticamente prevedibile i figli tardavano ad arrivare, finché per qualche ragione, di età, di fertilità, di stress, chi lo sa, decisero finalmente di rivolgersi alla medicina, perché volevano un figlio a tutti i costi e così fu, alla lettera. L’inseminazione artificiale non aveva dato risultati, solo stress supplementare, con tutti quei test, accertamenti, cure preventive, visite ginecologiche e il resto che è facile immaginare, “dal momento che bisogna pur introdurre qualcosa nell’utero della donna” dice uno un po’ misogino. A dire il vero l’espressione originale era più volgare, ma il concetto di base è lo stesso. Ci siamo capiti. Decisero allora, non senza lunghe e accese discussioni sulle incognite genetiche, di iniziare le pratiche per un’adozione. Volevano qualcosa di speciale. Riuscirono ad adottare un bel maschietto di pochi anni, sudamericano, per il quale spesero soldi e tempo. Avevano anche fatto qualche viaggio in Brasile per ottenere i documenti di adozione e di espatrio. Ambasciata, enti assistenziali, certificazioni di reddito, traduzione dei documenti e quant’altro. Un volta tornati, il bambino cresceva bene, in seguito studiava bene a scuola, era affettuoso, avevano fatto in modo che continuasse a conoscere un po’ di brasiliano, loro felicissimi, tutto era ok finché non arrivò all’adolescenza.

Questo fu raccontato tutto d’un fiato. A questo punto chi racconta si ferma per bere un sorso d’acqua. Qualcuno approfitta dell’intervallo e chiede “Ma come mai tutta questa precisione?” “Sai, mia moglie era stata amica di Maria e l’ha sentita e l’ha detta tante volte questa storia ad altre amiche comuni che oramai la racconta come se fosse scritta, manco ci pensa, la bocca va da sola.”  “Fin qua è semplice – sottolinea un altro, dandosi un po’ d’importanza, perché anche lui era stato sommerso da un fiume di parole, in casa – ma ora viene il bello, per modo di dire, fin qua è stato tutto normale. Ve lo racconto io.”

In terza media il ragazzino incomincia a star male, strani sintomi che qui non riescono a comprendere, lo portano da un sacco di medici, ma lui deperisce e si lamenta per i dolori, cosicché iniziano le cure contro i dolori. Si parla di una strana malattia autoimmune, esotica, rara, poco studiata, quelle robe che si sentono anche il televisione e per le quali chiedono i contributi a chi guarda. Va sempre meno a scuola, ma quel che è ancor più tragico, è che nello stesso periodo si ammala anche la sua compagnetta di banco, con la quale andava molto d’accordo. Studiavano insieme e le due famiglie, i genitori, si frequentavano molto volentieri. La moglie di quell’altra coppia era anche lei bibliotecaria, cosicché ogni tanto i due bibliotecari, che pensavano sarebbero diventati consuoceri, si incontravano a qualche corso di aggiornamento, avevano anche organizzato insieme una mostra con i libri più interessanti delle due biblioteche, per farli vedere agli studenti delle scuole. Cose del genere, come si usa fare.

Per la povera ragazzina si viene a sapere non molto tempo dopo che ha una leucemia giovanile che non lascia molte speranze. Anche lei, poverina, portata da medici di qui e all’estero. Niente da fare. In questa sofferenza comune le due famiglie si sono legate ancor di più. I due funerali li hanno fatti a distanza di qualche giorno. Nello stesso cimitero. Le due famiglie distrutte, erano figli unici. Si può immaginare, anzi non si può …

“E parecchi mesi più tardi cosa succede? Questo ve lo dico io.” Tutti rizzano le orecchie. Che altro poteva ancora succedere? Il marito di Maria incomincia a raccontare a sua moglie, con mezze parole, per sfogarsi un po’ ma anche per vantarsene un po’, da povero ingenuo per essere buoni, che una sua collega, di lui, gli sta ultimamente sempre addosso e appresso, per una ragione o per un’altra, o gli chiede dei titoli di libri, o come comprarli, o gli chiede di tradurre qualcosa dal tedesco o dal portoghese, o solo informazioni sulla catalogazione, o di andare a prendere un caffè, insomma, cose così, ma con troppa insistenza, dice per fargli compagnia in un momento così difficile, lo vede depresso. Poi raggiusta il tiro e passa all’attacco. Lo insegue al telefono, al cellulare, al fisso, lascia messaggi del tipo “stamani mi sono svegliata pensando a te, sono ancora tutta assonnata e accaldata”, come in un diario dell’adolescente brufolosa e miope, oppure “potresti entrare un attimo nella farmacia vicino alla biblioteca e comprarmi un collutorio alla fragola? Baci…” . Gli altri colleghi, che non sentivano ma vedevano, incominciavano ad ammiccare quando arrivava nell’ufficio e c’era anche qualche sorrisetto di troppo.

Lui incomincia ad evitarla, ma sul lavoro era quasi impossibile, aveva ceduto all’invito al caffè, tanto ci andava anche con altri, ora però cerca di parcheggiare in posti sempre diversi, perché se la trova davanti, ma una volta la macchina era stata tutta rigata con le chiavi, non poteva essere certo di chi aveva fatto il danno, il quartiere era un po’ malfamato e c’erano bande di ragazzini in giro. Maria si infuriò, ma i graffi erano soltanto un pretesto. Ma guarda, proprio con la mia macchina dovevano prendersela, usa la tua e soprattutto parcheggiala in posti più sicuri, perché quel giorno lui aveva preso la macchina di lei, per comodità, era più piccola. E dì a quella di smetterla, non vorrai mica che lo faccia io. Ma non si rende conto cosa stiamo passando? Non ha altro da fare? – Eh no, si è appena separata. – E noi cosa c’entriamo? E io che per poter dormire devo imbottirmi di tranquillanti, altrimenti mi butterei sotto il treno. Lui era spaventato per la reazione di lei e cercava di minimizzare. E’ solo un’esaltata disperata, deve pur far vedere che esiste. Tra un po’ farà anche scene di gelosia, a te, a me, a chi le capita, dove capita – replica Maria. E infatti, succede anche questo, l’altra incomincia a fare sfuriate al telefono.

“Ma questo è ancora niente” – continua. Si rende conto che la storia delle quasi corna, quasi o non quasi, è in fondo banale, e deve anticipare il finale. “Mia moglie, mentre me lo raccontava, perché aveva saputo tutto da Maria, la voce le diventava sempre più acuta per l’indignazione che ancora provava. E per la pena.” Passa del tempo e Maria riceve una lettera anonima, spedita dall’ufficio postale di una località vicina, accuratamente scritta a macchina, non a mano, accuratamente indirizzata, che così inizia, nello stile breve delle mail: “Ciao, Maria”, e, a capo:  “Anna Rossi – faccio un nome così, a caso, – è l’amante di tuo marito.”

“Questa Anna Rossi era la moglie di quella coppia amica che aveva perso la figlia compagna di banco del loro figliolo. Quando Maria raccontò questo a mia moglie, qualche giorno dopo aver incassato la vigliaccata, ha aggiunto un commento che mia moglie ricorda ancora: con tutte le pene e il dolore che ci sono caduti addosso, a noi e ai Rossi, questa sarebbe l’ultima delle mie preoccupazioni, anche se fosse vera.”

“Però questi cambiamenti nella loro vita li hanno portati a disinteressarsi di tutto e sono andati in prepensionamento, troppo giovani per non lavorare più e troppo anziani per ricominciare da capo. E tutto si è guastato, non riuscivano a reagire. E la fine impressionante di tutto questo è stata la morte incomprensibile di Maria.” – conclude un altro ancora.

Osservarono un minuto di silenzio. Poi bevvero. In ricordo della defunta. E anche per quel poveraccio di suo marito, perché no.

“A casa mia – incominciò un altro – mia figlia mi si è scagliata contro, dicendo ma voi uomini dovete parlare male sempre delle donne. Ma – dissi io – non la vedo proprio così. E’ successo e basta. Poteva succedere anche a suo marito, non è che lui sia molto più in sé, se lo vedessi ogni tanto la sera, giù a scolare birre. Mia figlia poi si calma. E dopo una pausa di ripensamento: avrete anche ragione. Sai, papà, – dice – la professoressa in classe ci ha insegnato una cosa interessante, a me piace anche se gli altri la trovano complicata e noiosa perché ci vuole del tempo per azzeccarla. Devono concentrarsi, devono leggere e non ci riescono, sono sempre col telefonino in mano. – Lei è molto brava a scuola, commenta orgoglioso il padre e riprende il discorso di sua figlia. – Loro vorrebbero la pappa pronta, magari trovata cucinata in internet, da dove copiarla senza pensarci. A me invece è piaciuta l’idea. E’ anche un bel gioco.” “Eh sì – interviene uno – ora la scuola deve divertire, scuola di intrattenimento, ma non sta bene dirlo in italiano, bisogna dirlo in inglisc, gheimin. Il gheimin fa bene all’intelligenza, questo è l’ultimo ritrovato del successo a scuola e dappertutto. Così vendono più videogiochi.” “Lascia perdere, fammi raccontare l’idea interessante per mia figlia. Oramai è così, la scuola deve essere multimodale, accattivante, giocosa, divertente, interattiva, autoeducativa, ludica, vuoi che te ne dica altro? Insomma, l’idea è che un racconto, ma non deve essere troppo lungo, bisogna trovarci la parola o le parole che spiegano, rivelano – dice mia figlia con aria estasiata – che cosa c’è di speciale per chi legge quel racconto, parole spia, così mi sembra che abbia detto mia figlia.” “E quale parola ha fatto la spia a tua figlia?” “Beh, è strano, io avrei scelto altre parole, lei ha detto che le ha fatto impressione leggere di una donna come di una poltiglia maleodorante. E perché? – chiede a questo punto sua madre, che stava a ascoltare, un po’ piccata. – Mah, ne ho le scatole piene – risponde – di vedere e sentire, alla tivù, donne che sono sempre bagnate e puzzolenti, da asciugare o da deodorare, che siano giovani o vecchie, o tra le due, che devono sempre stare in guardia, perché se non hanno le mestruazioni, scusate, si deve dire il ciclo, hanno le perdite urinarie, sono come tubi rotti, ma nel momento giusto non sono bagnate, enno’, perché devono usare sempre lubrificanti per la … Smettila! – grida scandalizzata mia moglie. – Ehi, mamma, non far finta che non capisci quella pubblicità dove la figlia miagola in scaip che mamma, oggi ho un prurito intimo, mamma, senti un po’, intimo!, ma che caz…, scusa mamma, ma qua è proprio il caso di dirlo, scusa mamma, e la madre che le dice con un sorrisetto dolce dolce, nella pubblicità tutte le mamme sono dolci dolci con dei figli e mariti rompicoglioni, dice che anch’io ce l’ho ogni tanto, quell’intimo prurito, ogni tanto!, e quasi arrossisce come una verginella, capisci la cretineria? Anziché dirle di andare dal medico e di far usare il preservativo, e scoprire se non ha per caso la candida e usare pantaloni meno aderenti in quel punto, le consiglia non so quale crema, anche quella intima – non c’è nemmeno bisogno di dirlo.”

“Noi stavamo a sentirla con gli occhi spalancati …” “Ha proprio ragione tua figlia – lo ferma uno – non ci avevo pensato, queste cose le vedono anche i bambini e vengono abituati a vedere dappertutto poltiglie maleodoranti, madri, sorelle, fidanzate, nonne che siano. Tutte imbottite di sotto, che siano giovani o anziane. Di sopra silicone, di sotto pannolone.” – inventa così per caso e gli altri gongolano. “E labbra a gommone, e abbiamo la terzina” – conclude un altro ancora. “Ma usava proprio queste parole?” – chiede uno che non frequenta troppo i giovani e non li sente quando parlano in gruppo, tanto meno quando scrivono in feisbuc. O fessbuc che sia, più giusto, direbbe lui, superiore a queste bambinate. “Ora il gergo giovanile è tréndi” – spiega un altro che ha una figlia che studia lettere, una cosa del genere, all’università – “dice mia figlia che le hanno fatto persino studiare una ricerca della sua professoressa dove si contava quante parolacce usano i maschi e quante le ragazze della stessa età, nelle ventiquattr’ore e in vari momenti della giornata, e le ragazze quasi quasi battevano i maschi, uguaglianza di genere, capirai. Ma passerà anche la moda delle parole volgari, vorrò vederli davanti al capufficio, se hanno la fortuna di averne uno.” E aggiunge pensoso, dopo una pausa di riflessione: “Chissà se c’era una rubrica per i ghei, in quel questionario, ora o mai più.”

“L’esempio viene dall’alto – sentenzia il terzo – grandi star televisivi, che si spacciano per grandi intenditori di tutto, piuttosto vecchiotti con panza cascante, parlano così e anche peggio, è anche vero che sono un po’ rincoglioniti e credono che parlando così evitano la rottamazione sociale e televisiva. Poi si fanno il selfi secsi tutti nudi, pipino, ino beninteso, al vento. Tanto per dimostrare che ho ragione io, che sono rincitrulliti.” “Mica tanto, sono dei vecchi volponi spelacchiati – corregge uno – certamente non si suicideranno come le ragazzine o non più ragazzine, poco previdenti e sciocche; anzi per niente, se il loro filmino diventa virale, sono più che contenti, tutti parlano di loro, meglio parlarne male che parlarne per niente, è una antica regola per farsi strada nel pubblico.” “Come le stroncature dei libri, a furia di sentir stronca che ti stronca mi sono riempito la casa di libri che non avrò mai tempo di leggere, ma ero troppo curioso se erano veramente delle schifezze e alcuni mi sono invece piaciuti” – confessa quello che non vorrebbe però sembrare troppo attaccato alla vecchia pagina stampata e fa finta di informarsi nei soscial. “Bah, ma che vadano tutti a zappare la terra!” – questo è un giovane nipote di contadini, non più contadino, che il campo arato lo vedeva ogni tanto quando tornava nel paese del nonno a visitare i cugini e che non sapeva nemmeno dar acqua a una pianta di casa. “Mao ci vuole, glielo farebbe fare lui il selfie.” – continua, sapendo poco o nulla di Mao, con vaghi ricordi di un sessantotto mai vissuto. “Tornando ai ragazzi e a come parlano anche le ragazzine d’oggi, niente supera le due eroine di “Farfalline di Scampia” – decide di concludere uno di loro. Più o meno anche gli altri sanno di cosa sta parlando, ne hanno fatto anche un film, e chi non lo sa sta zitto, per non fare la figura dell’ignorante in casa propria. Chiederà altrove o cercherà in interné. Ma non ora, davanti agli altri.

Gli altri, manco a dirlo, si erano divertiti un mondo, sollevati, soprattutto a spese delle donne, grande novità. Sulla questione dei suicidi a causa di immagini divulgate nei soscial, dove c’era poco da scherzare, stava per aprirsi un altro dibattito, molto animato e anche ostile, se la ragazza si era resa conto di cosa stava facendo o non se n’è resa conto, con il selfi o il filmino mezzo porno lanciati in rete, per vanteria o idiozia. Il “se l’è andata a cercare lei, la stronzetta” è stato però zittito perché chissà dove sarebbero andati a finire, ognuno sapeva di avere i suoi scheletri nei cellulari di famiglia e in feisbuc, esposti a cani e porci, alla faccia della pràivasi, ma chi ci crede alla praivasi – privasi si dice in inglese britannico, fa sapere il sapientone di turno – ma ordinarono quasi subito delle birre e si passò ad altro. Il rito funebre di Maria era finito nell’allegria o in ben altre direzioni, come spesso succede. Una volta, ad un funerale, la seconda metà del corteo – quella dove si raccontano le barzellette – ad un bivio ha preso un’altra strada, diversa da quella che conduceva i dolenti al cimitero, e ha fatto il giro turistico del quartiere. Infatti, ecco, quel racconto di Maria era stato come una droga disinibente, che fa dire delle cose che in altre occasioni si terrebbero per sé. Era chiaro. Per associazione di idee intorno ai torti subiti dalle donne, a volte anche per colpa di altre donne o di loro stesse, venivano a galla piccoli resti duri, indistruttibili, resti di schegge conficcate nella pelle che basta un tocco per sentirle di nuovo. E si ride o si piange.

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