In Irlanda il miracolo è già finito

5 Maggio 2013
Roland Erne*
Il caso irlandese è senz’altro emblematico di come negli anni ’90 si sia diffusa una approccio sindacale di stampo tecnocratico-nazionale, per cui l’idea è quella di dire: “Ebbene sì, abbiamo perso autonomia, lo Stato nazione ha perso autonomia, a questo punto l’unica soluzione è quella di aumentare la concorrenzialità della nostra economia in modo da gareggiare meglio con gli altri e, se riusciremo a farlo bene, anche i lavoratori ne trarranno vantaggio”. La filosofia prevalente negli anni ’90 è stata quella di dire: “E’ meglio accettare che i lavoratori abbiano una fetta più piccola della torta, però favorire maggiori investimenti, perché se favoriremo l’afflusso di maggiori investimenti, anche se abbiamo accettato di prenderci una fetta più piccola, in ogni caso per i lavoratori le condizioni saranno migliori”.
Il problema è che questo è un discorso che può funzionare fino a che a gareggiare ci si mette un Paese solo ma, nel momento in cui tutti in realtà entrano in questo meccanismo di gara, succede che tutti i lavoratori vanno a perdere perché, se a gareggiare sono tutti, la percentuale di reddito che poi resta ai lavoratori non fa altro che diminuire ovunque.
C’è, poi, un secondo aspetto e su questo di nuovo il caso irlandese è particolarmente emblematico: per 20 anni l’approccio governativo e la filosofia che è stata seguita è quella di dire che i lavoratori potevano compensare il fatto che il loro aumento salariale non era proporzionato all’aumento della competitività attraverso il meccanismo del credito, quindi una forma di keynesismo privato, sostanzialmente, per cui il credito veniva erogato dalle banche e favoriva un meccanismo di consumi keynesiano, non attraverso un debito pubblico, ma privato, i lavoratori andavano tutti a indebitarsi con le banche per poi investire sul mercato immobiliare e competere tra di loro sullo stesso.
Questo creava la sensazione di un maggiore benessere, per cui anche l’operaio, il lavoratore medio aveva la casa da 400.000 euro, quindi poteva avere la sensazione di un maggiore benessere diffuso nel Paese. Questa sensazione è stata in qualche maniera favorita e seguita anche dalle forze sindacali e fino al 2008 la vulgata più diffusa diceva: “Gli irlandesi hanno trovato la chiave, hanno trovato la soluzione!”. Ma con la crisi finanziaria e con il crollo finanziario è crollato anche questo modello di sviluppo.
Ovviamente i sindacati oggi si sono trovati a dover fare i conti con questa situazione, quindi se prima l’idea era quella di accettare una fetta più piccola di una torta, che però diventa più grande, ora ti ritrovi a dover accettare una fetta più piccola di una torta che diventa sempre più piccola. Così il patto sociale in Irlanda è semplicemente crollato.
Il sindacalismo irlandese è veramente in crisi, una crisi fortemente grave perché la logica fondamentale del sindacalismo irlandese non funziona più. I lavoratori irlandesi sono veramente in una situazione difficile, il 15% di loro sono in ritardo sui pagamenti dei mutui e questo non dà molta libertà di azione; l’altro problema è che abbiamo soprattutto nel servizio pubblico una situazione per cui anche i leader sindacali pensano ancora nel loro orientamento di fare delle riduzioni e di gestire la situazione facendo concessioni anche salariali, aprendo un pesante conflitto tra i lavoratori, perché i grandi Sindacati del servizio pubblico hanno avuto la splendida idea di fare un accordo nazionale che penalizza una parte dei dipendenti, “salvandone” la maggioranza. Sono quelli che lavorano la notte e nel week end a pagare il costo di quest’accordo, con  la riduzione dei propri salari, quindi è logico che è iniziata una guerra all’interno del Sindacato che può condurre anche alla divisione del Movimento sindacale.
In questa situazione credo comunque che ci sia una possibilità per un rilancio delle azioni sindacali, anche transnazionali a livello europeo, perché quando abbiamo una Commissione Europea e una Banca Centrale Europea che dicono: “Noi vogliamo tagliere i salari, noi vogliamo controllare le spese pubbliche”, non ci sono più i mercati che fanno questo processo di pressione sui salari ma persone in carne e ossa, l’avversario ha un volto, quello dei politici. Questo nella storia sindacale è sempre stato più facile, cioè attaccare delle decisioni prese da persone piuttosto che dal “mercato”. Per dirla più semplicemente, queste pressioni salariali non sono il risultato delle pressioni astratte dal mercato, ma sono delle decisioni pubbliche, politiche, che possono dare anche la possibilità di politicizzare questi problemi.
E’ vero tra i sindacati europei che c’è una discussione difficile di merito: “I tedeschi non vogliono questo, gli italiani non vogliono quest’altro, etc.” e c’è il rischio di nazionalizzare questo conflitto ma il peggioramento delle condizioni materiali dei lavoratori è generalizzato e forse la FIOM – per ottenere una convergenza politica contro le decisioni dei tecnocrati – può contribuire a un rilancio dell’unità d’azione dei lavoratori europei, magari non limitandosi a parlare soltanto con il Sindacato metalmeccanico tedesco, ma ad esempio, interloquendo di più con il Sindacato del servizio pubblico in Germania che ha subito maggioramente l’attacco al salario e ai diritti.

*Dall’intervento tenuto a Roma lo scorso 5 aprile in occasione del seminario “C’è un futuro per il sindacato? Quale sindacato?”

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