“Interesse generale” e rilancio della crescita

1 Gennaio 2015
Edad-moderna
Gianfranco Sabattini

Pierfranco Pellizzetti, nell’articolo “La rivoluzione dell’interesse generale”, apparso sul n. 8/2014 di “MicroMega”, sostiene che l’accaparramento dissipatorio e distruttivo in cui si è tramutato il sistema economico negli ultimi decenni sta rivoltandosi contro se stesso, in quanto riduce in pezzi proprio la macchina capitalistica per la riproduzione della ricchezza”. La prospettiva di politica pubblica che egli propone per fuoriuscire dalla logica dissipatrice, al fine di rilanciare la crescita e combattere la povertà è condivisibile, ma le azioni che egli suggerisce, soprattutto per quanto concerne l’abolizione della “miseria”, risentono in modo eccessivo della preoccupazione che esse siano conservate nell’alveo del “rispetto delle regole”; fatto, questo, che ne annacqua l’efficacia e la desiderabilità.
Secondo Pizzetti, la crisi del Paese è da ricondursi a quella del capitalismo in generale, in quanto gli “incontrollati spiriti animali” che l’hanno tradizionalmente alimentato ne stanno determinando la distruzione, a causa dell’affermarsi dell’ideologia del libero mercato, impostasi a partire dagli anni Ottanta. Dalla crisi è possibile uscire, a patto che si faccia “piazza pulita” delle “menzogne” che tale ideologia ha diffuso e consolidato nell’immaginario collettivo e si riconosca che l’interesse individuale si può soddisfare “soltanto grazie a politiche generali indirizzate a difendere e promuovere il bene collettivo”. A tal fine, secondo Pizzetti, occorre un ritorno all’azione pubblica, sia per promuovere l’accumulazione di ricchezza da destinare a scopi sociali “attraverso l’innovazione e la creatività strutturale, che per lottare sistematicamente contro i “processi di impoverimento” di larghe fasce sociali.
In questo momento, il ritorno a un possibile ruolo portante dell’azione pubblica sarebbe facilitato secondo Pellizzetti dal fatto che lentamente ci si sta rendendo conto che il rilancio della crescita attraverso l’innovazione può essere realizzato solo se organizzato secondo le modalità di un processo sociale. Poiché questo è strettamente legato all’investimento, considerata la crisi del settore privato, occorre che il settore pubblico si faccia carico di svolgere il ruolo dinamico e innovativo proprio della figura ideal-tipica e “romantica” dell’imprenditore innovatore schumpeteriano. Il nuovo ruolo del settore pubblico sarebbe imposto, secondo Pellizzetti, dal consolidamento di due tendenze: una strutturale ed un’altra ideologico-argomentativa.
La tendenza di natura strutturale è rappresentata dal fatto che il paradigma economico sottostante il funzionamento del capitalismo ha cessato, negli ultimi decenni, d’essere espresso dalla crescita dell’economia reale, in quanto sostituito dal “decentramento transnazionale, finalizzato al puro e semplice abbattimento dei costi del processo di accumulazione. Da ciò sono scaturiti due effetti: “da un lato la prevalenza strabordante di logiche speculative, tanto sul versante del lavoro come del consumo, dall’altro la messa in capo al ceto medio in via di proletarizzazione dell’onere dell’investimento anticiclico sotto forma di spesa”.
I due effetti, secondo Pellizzetti, sarebbero la conseguenza dell’ascesa, a principale “motore della domanda internazionale” della particolare relazione di scambio, resa possibile dall’approfondimento dell’integrazione delle economie nazionali nell’economia mondiale, tra i Paesi ricchi (come gli USA) e quelli emergenti (come, ad esempio, la Cina). Nella relazione, le logiche speculative sono alimentate, per un verso, dai consumatori delle aree a più alto livello di benessere e, per un altro verso, dai lavoratori dei Paesi aventi un più basso livello di vita; il potere d’acquisto dei primi è potenziato dalla compressione dei prezzi delle produzioni provenienti dai secondi, per via del lavoro sottorimunerato da questi ultimi praticato.
La tendenza di natura ideologico-argomentativa, a supporto di quella relazione di scambio, è strumentale rispetto alla giustificazione della redistribuzione del reddito verso l’alto e alla condivisione del convincimento, errato, che la concentrazione reddituale costituisce il presupposto del rilancio più rapido della crescita. In realtà, l’esito finale delle ineguaglianze distributive è una riduzione del tasso della crescita e un aumento dell’impoverimento.
In conclusione, secondo Pizzetti, le due tendenze (quella di natura strutturale e quella ideologico-argomatativa) dimostrerebbero che l’accumulazione speculativa non si trasforma in “creatività innovativa”, “per ragioni strettamente inerenti ai criteri temporali a cui si attengono i potenziali investitori privati, la cui prospettiva è microeconomica, ‘con il relativo ritorno a breve dell’investimento’. Mentre è il soggetto pubblico quello in grado di ragionare sul tempo medio-lungo della macroeconomia”.
A sostegno della sua proposta, Pellizzetti ricorda che il nostro Paese, in un momento di profonda crisi, all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale, ha trovato una via originale, prima per la sua ricostruzione e, successivamente, per promuovere una crescita fondata su un sostenuto flusso di esportazioni; l’idea-forza che ha sorretto l’intero processo è stata la decisione di dare luogo alla nascita, attraverso il “fertile incontro sinergico” delle idee di un grande imprenditore, Oscar Sinigaglia, con la volontà politica del governo in carica, di una siderurgia a ciclo integrale, in luogo di quella obsoleta da rottamazione.
E’ stata la nascita di una siffatta politica pubblica che ha reso possibile, tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, il miracolo economico che ha consentito al Paese, uscito distrutto dal conflitto, di passare dalla periferia del mondo industrializzato al novero dei Paesi economicamente più avanzati. Il processo allora attivato è la conferma, secondo Pellizzetti, che l’imprenditorialità e l’innovazione sono l’esito di “una corretta tutela dell’interesse generale”; si è trattato di un esperienza positiva, il cui insegnamento è “andato perduto nelle sbornie ideologiche degli ultimi decenni”.
L’insegnamento dell’esperienza del dopoguerra dovrebbe essere tenuto in considerazione anche per curare la grave disfunzione della quale soffre la società italiana, per via dell’approfondimento e dell’allargamento delle disuguaglianze distributive causati dalla crisi dell’economia reale. Se le disuguaglianze sono una disfunzione della società, esse – afferma Pellizzetti – vanno curate politicamente e, di fronte all’urgenza che qualcosa occorre fare nell’immediato, bisogna realisticamente partire dalla considerazione dell’intera società, “mettendo in campo tutti gli strumenti sociali a disposizione’”, nella consapevolezza che i “salti di civiltà” presuppongono trasformazioni mondiali epocali e tempi molto lunghi.
Considerando che le diseguaglianze e l’impoverimento in quanto disfunzioni sociali hanno costi collettivi, la politica pubblica, oltre che svolgere il ruolo dinamico del quale prima si è detto, dovrebbe essere finalizzata anche a creare occasioni per lavori socialmente utili, attraverso la valorizzazione della tradizione mutualistica del Paese, promuovendo attività collettive facilitate dalla contiguità fisica dei lavoratori nei luoghi di lavoro, risvegliando in essi le opportunità insite nell’innovazione della quale è portatrice la cooperazione. La stessa politica pubblica dovrebbe, inoltre, mettere a punto strumenti idonei a consentire la valorizzazione delle conoscenze delle persone, seguendone gli sviluppi nel tempo per fini occupazionali, oppure dovrebbe favorire la costituzione di forme integrative dell’attuale welfare State in crisi.
In conclusione, secondo Pellizzetti, sia il rilancio dell’economia, che la lotta all’impoverimento dovrebbero essere il risultato di un impegno collettivo complessivo e, sebbene la collettivizzazione non sia di per sé un fine desiderabile, un’azione collettiva per promuovere un processo utile è invece desiderabile, per motivi economici e sociali.
Le osservazioni critiche e propositive di Pellizzetti, se condivisibili per quanto riguarda il rilancio della crescita attraverso il ruolo dinamico e imprenditoriale del settore pubblico, esse sono poco convincenti se riferite alle modalità con cui combattere le disuguagliane e l’impoverimento. Esse appaino come un insieme disorganico di proposte che possono tutt’al più costituire il contenuto di un ideale “cahier de doléance” per un’”agenda” di un governo impegnato a “gestire” lo status quo, ma non a portare il Paese fuori dalle secche della stagnazione economica e sociale. Pellizzetti, nel sottolineare l’urgenza di approntare la lotta contro il crescente impoverimento si rifà al saggio “Abolire la miseria” di Ernesto Rossi, il quale, pur senza evocare l’inevitabilità di “salti di civiltà”, sottolineava come la lotta alla povertà implicasse un riformismo economico ed istituzionale al quale non sono affatto riconducibili le proposte di Pellizzetti. E’ appunto al riformismo e alle proposte formulati nelle loro linee essenziali da Ernesto Rossi, oltre mezzo secolo fa, che le forze sociali e culturali, che si dicono autenticamente progressiste, dovrebbero ispirare la loro critica e la loro azione per ricuperare una progettualità sociale di cui sono attualmente prive, a iniziare dai sindacati.

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