Intervista a Monica Attias: “Sulle persone rifugiate Europa deve cambiare”

16 Dicembre 2020

[Filippo Kalomenìdis]

Filippo Kalomenìdis scrittore e sceneggiatore sardo-greco, si è recato a Lesvos in Grecia per documentarsi sull’incendio del campo profughi di Moria e sul nuovo centro di Kara Tepe per il suo libro “La Direzione è storta”. Un reportage lirico sulla pandemia e i virus del potere (uscita a marzo 2021, Homo Scrivens editore) che racconta anche la sua esperienza di volontario nei centri di isolamento per malati di Covid-19 a Bologna. Durante il viaggio è nata l’idea di pubblicare sul Manifesto Sardo un’inchiesta che rendesse chiara la realtà spaventosa dei più sovraffollati campi di segregazione di rifugiati asiatici e africani in Europa, di cui questo articolo è la terza e ultima parte.

«La cosa più avvilente è vedere nei campi di Lesvos tanti, tantissimi genitori che sentono di non poter fare più nulla per i propri figli”, mi racconta Monica Attias, Coordinatrice dei Corridoi Umanitari dalla Grecia per la Comunità di Sant’Egidio. Grazie al lavoro continuo, paziente, instancabile di persone come Monica tanti rifugiati nelle isole greche possono però nutrire ancora la speranza di ricevere il diritto di asilo e di trovare accoglienza nel nostro Paese. «”Noi non eravamo ridotti così, né io, né mia moglie, né i miei figli”, mi ha detto un padre proveniente da un paese del Maghreb indicando i segni della scabbia sul corpo dei bambini. La sua famiglia scappò dal proprio Paese per sfuggire agli integralisti. Lui e sua moglie erano insegnanti e ora si trovano a vivere in condizioni difficilissime nel campo di Kara Tepe», conclude Monica. L’incontro con lei è illuminante perché il suo discorso contiene tanto la realtà della geopolitica quanto le voci umane, dignitose, piene di vitale resistenza dei profughi. Soprattutto racchiude la speranza che l’UE prenda consapevolezza che l’accoglienza e l’integrazione sono le uniche strade percorribili.

Come e perché è cambiata la politica dell’UE nei confronti dei rifugiati?

Il Nuovo patto sull’asilo e la migrazione proposto il 23 settembre 2020 dalla Commissione Europea impone una politica UE che rivela tutta la sua debolezza sul piano della solidarietà tra gli Stati membri nella ripartizione dell’accoglienza  dei richiedenti asilo.

È prevista la solidarietà sul piano della collaborazione ai rimpatri, ma è ancora poco vincolante la condivisione e la cooperazione per ricollocare i richiedenti asilo dai Paesi che si affacciano sul Mediterraneo.

Un secondo punto riguarda le procedure alle frontiere esterne dell’Europa: è previsto un trattamento accelerato delle domande di asilo e immigrazione al confine di arrivo. Il modello “hotspot” delle Isole dell’Egeo, con un regime di trattenimento dei richiedenti asilo, diventerà a quanto pare il modello europeo di screening e accoglienza alle frontiere.

D’altro canto il patto menziona la promozione di meccanismi per l’ingresso regolare e protetto di rifugiati e richiedenti asilo, come i “corridoi umanitari” già sperimentati in Europa. Speriamo che ciò significhi che i safe and legal pathways, come quelli promossi da Sant’Egidio verranno finalmente inseriti nel quadro normativo.

Di quanto si è ristretta la disponibilità dei governi dell’UE rispetto alla fondamentale presenza delle ONG nelle isole del Mediterraneo dove sbarcano i rifugiati?

In Grecia dal 2020 è entrata in vigore una legge che di fatto preclude alle ONG la possibilità di operare in favore di migranti e rifugiati se non dopo essersi registrate con una procedura particolarmente complicata e onerosa. La Comunità di Sant’Egidio stessa, che opera dal 2016 nelle isole e che ha già effettuato un corridoio umanitario per 69 persone, è costretta a registrarsi seguendo questo schema.

Nonostante la generosa accoglienza degli abitanti delle isole all’inizio dell’emergenza sbarchi, dal 2011 in poi il rapporto tra le ONG e la popolazione greca si è esacerbato causando anche degli scontri.

È importante ricordare che tali scontri sono a volte frutto del senso di abbandono che le comunità locali provano rispetto al governo centrale e all’UE, un senso di impotenza sconfinato di fronte a un’emergenza in un contesto di accresciuta povertà generale.

Per questo nel nostro lavoro a Lesvos abbiamo sempre cercato di collaborare con le organizzazioni locali e di assistere anche i greci che si trovano in povertà, così come Medecins Sans Frontieres durante l’emergenza Covid ha prestato la propria opera nell’Ospedale di Mitilene.

Anche per questo abbiamo firmato un importante protocollo di intesa con la locale Metropolia ortodossa. Il dialogo è sempre la via migliore.

Come si è mossa la Comunità di Sant’Egidio nella difficile transizione tra il governo Tsipras e il governo delle destre di Mitsotakis? Esistono margini per giungere a una diversa politica dell’attuale esecutivo nei confronti dei rifugiati?

Il progetto “corridoi umanitari” è iniziato sotto il governo Tsipras con la visita a Lesvos nel maggio 2019 del Cardinale Krajevski, elemosiniere del Papa, e del Cardinale Hollerich, presidente del Comece.

È  sotto il governo Mitsotakis che il programma si è realizzato, anche se la gestione dell’accoglienza in Grecia è certamente un nodo spinoso della politica del governo. Credo che i margini di dialogo ci siano sempre e che il compito della società civile, delle Chiese e delle ONG sia quello di cambiare la narrativa sull’immigrazione in Grecia come in Europa e mostrare alla politica le buone pratiche di integrazione dei migranti e dei rifugiati.

Una domanda semplice per chi non conosce l’importanza del vostro operato a Lesvos come in ogni altro angolo del Mediterraneo in cui vengono confinati i rifugiati: come agite in questi luoghi?

Il primo grande impegno è quello di contribuire allo svuotamento dei campi attraverso il progetto dei Corridoi umanitari. Il 22 settembre abbiamo iniziato con il Ministero dell’Interno una operazione di ricollocamento in Italia che interesserà 300 persone vulnerabili, famiglie, individui e minori non accompagnati.

Dopo l’incendio che ha distrutto il campo di Moria, che ha creato enormi difficoltà a chi viveva già in un inferno, il lavoro di Sant’Egidio si è rafforzato perché nulla sia come prima.

Siamo convinti che l’Unione Europea debba intervenire con maggiore decisione attraverso il ricollocamento di un numero di rifugiati che è alla sua portata nel segno dell’accoglienza e dell’integrazione nei Paesi membri.

In secondo luogo il nostro impegno è migliorare le condizioni di vita di chi è rinchiuso nei numerosi campi della Grecia, soprattutto nelle isole. A cominciare dal cibo.

A Lesvos abbiamo organizzato, fuori dal campo, il ristorante dell’amicizia per ridare dignità alle persone, farle sedere a tavola con la propria famiglia e mangiare cibo preparato con cura e affetto. Nel mese di agosto abbiamo distribuito oltre 15000 pasti. E poi i corsi di inglese e la “Scuola della Pace” per 250 bambini dei campi che aspettano un’istruzione a cui non hanno accesso formalmente.

Quali sono le impressioni che le sono rimaste più impresse dalla realtà dei profughi prigionieri?

La voglia di futuro degli adolescenti e dei bambini afghani innanzitutto. Un desiderio che deve essere accolto e ascoltato dall’Europa.

A Moria, ad esempio, una bambina di 11 anni aveva trasformato la sua tenda in un’improvvisata scuola di inglese per le coetanee. La partecipazione delle ragazzine crebbe a tal punto che ci chiese della plastica e dei pali per ingrandire la sua scuola.

Sono ragazze e ragazzi animati dall’idea fissa di istruirsi e progredire. Purtroppo dopo la distruzione di Moria, nel nuovo campo di Kara Tepe, la bambina non può più continuare l’esperimento. Lì le tende sono numerate e destinate all’uso esclusivo delle famiglie.

La comunità africana invece mi ha colpito per la disperazione che la attraversa. È composta in larga parte da madri sole con figli.

Le donne sono spesso vittime della tratta che dal Congo e dal Cameroon le porta in Turchia per essere sfruttate sessualmente da trafficanti di esseri umani ed infine, dietro pagamento le fa sbarcare in Grecia. Purtroppo ancora i meccanismi della tratta che dall’Africa porta alla penisola ellenica ci sono ancora poco chiari.

Nonostante questo abbiamo cercato di comunicare ai rifugiati africani il bisogno di non lasciarsi andare, di auto-organizzarsi nella pulizia del campo, nell’aiutarsi tra loro, dal momento che le autorità nazionali che gestiscono il campo non hanno competenza sullo smaltimento dei rifiuti.

Altro elemento di forte impatto emotivo è sicuramente l’umiltà dei profughi, in molti casi istruiti, che si dichiarano pronti a compiere i lavori più umili pur di acquisire la libertà.

Di sicuro dovremo compiere, per coloro che avranno la fortuna di vedere accolta la richiesta di asilo, un grande lavoro per ricostruire queste vite che si sono fermate in tanti anni di viaggi infernali e di reclusione nei campi.

Quello con Monica Attias è l’ultimo incontro della mia ricerca a Lesvos. Mi lascia dentro la ferma convinzione che realtà come la Comunità di Sant’Egidio vadano sostenute fermamente nella loro difficilissima opera, ma che di pari passo sia nostro doveroso compito di cittadini agire fattualmente e politicamente per un’Europa dove luoghi infami come Moria e Kara Tepe non esistano più e dove nessun genitore debba sentire di non poter fare nulla per i propri figli. 

Fonte immagine del campo profughi di Moria, a Lesbo: welfarenetwork.it

1 Commento a “Intervista a Monica Attias: “Sulle persone rifugiate Europa deve cambiare””

  1. Intervista a Monica Attias: “Sulle persone rifugiate Europa deve cambiare” – Eutopia scrive:

    […] SORGENTE: https://www.manifestosardo.org/intervista-a-monica-attias-sulle-persone-rifugiate-europa-deve-cambia… […]

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