Jack Hirschman, il poeta amico della Sardegna

16 Settembre 2021

[Franco Carlini]

Jack Hirschman, nato nel Bronx di New York nel 1933, deceduto a San Francisco nell’agosto del 2021, di famiglia russo-ebrea, è stato considerato il maggiore poeta statunitense degli ultimi decenni dalle piccole frange di sinistra del suo Paese e da quella sinistra a vario titolo, sparsa in varie parti del mondo.

Ma solo ora, dopo la sua scomparsa, la stampa (parlo di quella italiana) si accorge di lui, poeta sovversivo, vittima di un irriducibile ostracismo in patria per le sue scelte politiche. Docente di letteratura inglese all’Università della California a Los Angeles, ne fu cacciato nel 1966 perché assegnava la “A”, il massimo dei voti, ai suoi studenti, per evitare che venissero spediti a combattere in Vietnam. Da allora si schierò in difesa degli umili e fu incarcerato quattro volte per aver partecipato all’occupazione di case per i senza tetto e per violazione di una legge, tuttora vigente negli Usa, che vieta di offrire cibo ai barboni delle grandi città. Lui stesso visse da proletario con quanto riusciva a racimolare mediante i cicli di letture in varie parti del mondo, le traduzioni (conosceva ben sette lingue) e i pochi diritti di autore.

Dopo la conoscenza avvenuta a Iglesias alla fine degli Anni Novanta, accadde che ci scambiassimo la promessa di una reciproca traduzione, che avvenne puntualmente con la pubblicazione di un gruppo di mie poesie in A.V.A (1998), una rivista a diffusione nazionale, raccolte poi dallo stesso Hirschman in un volumetto con il titolo di A Mountain Under a Bridge ( CC, Berkeley, Marimbo 2002). Io di rimando tradussi poesie per Paraulas (n. 2 – marzo 2000, pp. 35-36) e, in seguito, per l’ultima stagione di S’Ischiglia (anno I – n. 5 – novembre 2012, p.143; anno II – n. 4, 2013, p.127).

Essendo stato legato a Hirschman da un’amicizia lunga 25 anni, ho pensato di ricordarlo con un’intervista fatta a suo tempo, importante, a mio parere, per chiarire i suoi rapporti con la Sardegna e, soprattutto, quelli con il marxismo, la cui adesione si traduceva in una scelta di vita vissuta nel segno dell’amore e della solidarietà, come era solito.

L’Intervista

Sei venuto in Sardegna parecchie volte. Che cosa ti ha spinto a un viaggio verso un’isola così lontana dalla California?

Sono venuto in Sardegna già quattro volte, in ognuna delle quali per un ciclo di letture organizzato dal mio editore “Multimedia Edizioni” di Salerno, a cura di Sergio Iaculli e Raffaele Marzano. Ma, come tu sai, il tempo in Sardegna è un po’ come quello del Nord della California, specialmente San Francisco, cosicché io mi sento a casa.

Che impressione ne hai ricavato? Intendo parlare dell’ambiente culturale, accademico e no.

I miei soggiorni in Sardegna durante i cicli di letture sono stati occasione per riallacciare amicizie iniziate durante la mia prima visita qualche anno fa e per farmi nuovi amici. Nel fare questo, il significato delle amicizie internazionali si riafferma continuamente. Per esempio, uno dei miei traduttori in italiano è Mariella Setzu, una poetessa di Cagliari. Così come lei ha tradotto i miei lavori – L’arcano di Pasolini, L’arcano di Shupsl in italiano –  così io ho tradotto qualche suo lavoro in americano e ho pubblicato, per esempio, il suo meraviglioso omaggio a Walt Whitman a San Francisco. Inoltre, Mariella ha visitato San Francisco, dove ha tenuto reading di poesie, come io faccio in Sardegna.

Ho letto poesie all’Università durante le lezioni di Paola Boi [docente di letteratura anglo-americana all’Università di Cagliari, N. d. R.]; a teatro, sponsorizzato dalla rivista Erbafoglio (Alberto Lecca è un amico-poeta di vecchia data, al quale ho tradotto e pubblicato dei lavori negli USA); e poi c’è la fratellanza espressami dal modo di vivere della classe lavoratrice, quei fratelli e sorelle che come me rendono la vita una gioia, un modo di vivere che può essere di tutti.

Reputo Chicco Pes di Quartu un vero compagno, la cui sensibilità rappresenta la parte migliore dei sardi.

La primavera scorsa, Fernanda Pivano, la maggiore traduttrice di scrittori americani del Novecento, mi diceva che la politica sociale di Bill Clinton, togliendo dai marciapiedi delle città americane i barboni e i poveri in genere, ha tolto anche spazio alla contestazione politica. Come stanno veramente le cose?

Bene, tu conosci la farsa del sesso alla Casa Bianca, il sotterfugio legale del processo (la questione delle leggi costituzionali) è la farsa delle farse, poiché tutti i senatori sono miliardari, e sono visti dalla gente come criminali. In realtà, le cose sono terribili. Apparentemente ognuno è pulito ma è marchiato con un prezzo; interiormente è la rovina.

I novantenni vengono sfrattati da avidi padroni di casa. I poveri diventano più poveri. Il fascismo sociale domina sull’intellighenzia e la tecnologia con la sua comunicazione sembra addomesticare anziché ispirare sensibilità verso le manifestazioni sociali sempre più vaste.

La domanda che ti ho appena fatta rimanda inevitabilmente a un’altra. Qual è il ruolo e la reale capacità di incidenza politica del Communist Labor Party sulla società americana?

Il Communist Labor Party si è sciolto nel 1992, non per delle fratture interne, ma per unanime accordo da parte dei compagni che l’era dell’ideologia sovietica era finita e che c’era bisogno di una nuova forma di organizzazione per affrontare la lotta di classe da un punto di vista della tecnologia. Il CLP è durato 18 anni. Nel 1996 fu fondato la League of Revolutionaries for a New America (LRNA).

Non siamo un partito ma un’organizzazione di educatori alla rivoluzione, associati al neonato Labor Party (1997), il primo partito di massa della classe lavoratrice fondato negli US.

Il Labor Party fu formato da lavoratori coalizzati, stanchi di quei sindacati corrotti associati al partito democratico e al partito repubblicano (ambedue capitalisti).

Il ruolo della lega (LRNA) è di unire i settori più poveri della società (senzatetto, immigrati) al nuovo partito in via di sviluppo.

La lega, sebbene esigua, ha una vasta influenza in aree come “la nuova classe di gente povera”.

E sulla cultura in generale?

Considerando che molti dei nostri compagni sono poeti, noi uniamo la cultura alla lotta per porre fine alla fame e al fenomeno dei senzatetto, quindi si può dire che la nostra influenza più forte la esercitiamo col nostro ruolo culturalmente rivoluzionario.

Che cosa significa per te poeta, e per quelli come te, usare la poesia come strumento di lotta politica? Voglio dire: l’uso strumentale della poesia può uccidere la poesia?

No, non credo che “ l’uso strumentale” possa uccidere la poesia.

Penso che sia un’idea da “guerra fredda” atta a scoraggiare la creazione di ciò che io chiamo “propaganda del cuore”, con questo termine io semplicemente intendo la buona poesia.

Per una classe o per l’altra, tutta la poesia è propaganda, anche se la lingua è la stessa.

Questa contraddizione è pensata per avvicinare la gente alla poesia.

La chiave sta nell’essere capaci di dire: io sono interiormente aperto a scrivere qualsiasi cosa, però non dimentico mai che prima di tutto metto il mio spirito a servizio del cambiamento rivoluzionario – tra gli altri motivi –, quello che permette ad ognuno di rendersi conto di essere un poeta.

Che futuro ha la poesia politica in America?

Il futuro della poesia americana non è mai cominciato, perché il futuro dipende da un serio cambiamento delle condizioni storiche della vita sociale e politica in America. Ci sono migliaia di poeti che scrivono in America, oggi, poesie provenienti da ogni sorta di etnia, per esempio.

Tuttavia la vita spirituale dell’America, nonostante tutte le sue banche, non è mai stata così in bancarotta.

Solo quando le vittime saranno incitate ad organizzare e cambiare il futuro, la poesia avrà un vero futuro piuttosto che un senso di “capriccio passeggero”.

Per quale motivo lasciasti la docenza universitaria?

Lasciai la vita accademica come insegnante per protesta contro la guerra in Vietnam. E diventai un comunista per le strade. Ed effettivamente ho voltato le spalle alla cultura ufficiale. Perciò, non mi aspetto niente da essa, perché è comunque al servizio dello stato aziendale, ed io lotto contro la tirannia di un simile stato.

Qual è la reazione della cultura ufficiale alla vostra presenza sullo scenario culturale americano? Voglio dire, fare il poeta impegnato in una realtà come quella americana deve essere difficile, molto più di quanto lo fosse una quarantina d’anni fa in Europa. Credo ci sia da pagare qualcosa anche sul piano personale. Non è così?

Nel processo rivoluzionario, il pagare è un piacere, non una sconfitta, perché niente può mai essere perso – l’adesione è un costante rinnovamento di tale affermazione, per quanto difficile nella realtà. In fin dei conti, non vedo mai tutto ciò in termini di perdita e di sconfitta al di fuori della fase momentanea. Una battaglia per i senzatetto può essere persa oggi, ma ci stiamo già preparando per la battaglia di domani. E poi, come sai, dopo una certa età il personale ed il politico in un uomo si fondono, con grande speranza per ciò che diventa progressivamente più umano.

Be’, certamente. In realtà, i comunisti sono sempre “ufficialmente” in minoranza. Nella sinistra c’è molta attività anarchica, molta attività in favore dei detenuti nelle prigioni, e attività per dare casa ai senzatetto.

Immagino che, in una realtà complessa come quella degli Stati Uniti, l’area della contestazione sociale includa altre realtà culturali e movimenti non identificabili con la League of Revolutionaries for a New America? Quali? In che rapporti siete con loro?

Tutto ciò, ovviamente, è una forma di resistenza al fascismo in atto e cioè contro uno stato aziendale neocapitalista, le cui radici sono nella paura della gente di perdere il lavoro, nella paura della polizia, e nell’obbedienza alla “legge e ordine” dettate dal governo.

La Lega lavora con tutti coloro che lottano in favore della nuova classe di poveri, cosicché le vecchie ideologie settarie non reggono più.

La tua opera è stata ricondotta alla corrente della Beat Generation. A torto, forse, per quanto riguarda l’ispirazione ideologica di fondo. E’ così?

La Beat Generation è diventata patriottismo commerciale e noioso. Iniziò come un’eccitante evasione di responsabilità rivoluzionaria, perché aveva una nuova forza popolare nel linguaggio per una nuova epoca (narcomaniacale).

Ma la sua propensione alla droga rese davvero impossibile un’organizzazione per il cambiamento. Alla fin fine, la sua ideologia era la droga, ed io ho smesso di prendere stupefacenti 33 anni fa.

Eppure ci deve essere qualcosa che, in qualche modo, giustifichi il fatto di essere stato accostato agli scrittori della cosiddetta Scuola di San Francisco. Se sì, ne vuoi parlare?

Dal momento che scelsi di seguire il marxismo, io sono veramente al di fuori delle “scuole” dei poeti di San Francisco, dalla Beat, ai Language Poets,come da qualsiasi altra tendenza letteraria. E siccome traduco ed uso le mie traduzioni durante le dimostrazioni e le letture pubbliche coinvolgendo i lavoratori nella lotta di classe, sono un po’ da considerare un’anomalia a San Francisco. Ma a me piace questo ruolo.

Io ed il mio lavoro andiamo avanti nel modo che io voglio, non nella direzione di un ego con ambizioni a buon prezzo che vuole più potere più fama e più soldi; io piuttosto sono ambizioso solamente di mettere insieme il potere dei poveri e le articolazioni della loro lotta per l’indipendenza dal sistema.

Che influenza ha avuto la cultura europea, vista nella sua generalità, sulla tua formazione?

La cultura europea ha avuto una profonda influenza sulle mie opere, sulla mia vita di traduttore e anche sulla mia vita privata.

Poeti come Majakovskij, Artaud, Eluard, Pasolini, Céline – tutti da me tradotti – hanno influenzato non solo la mia stessa poesia ma il mio modo di guardare alla vita.

E quella italiana?

Sebbene abbia letto le mie opere in Sicilia nel 1980 in occasione della pubblicazione della mia traduzione di Yossiph Shryn, una grande poesia scritta dal più grande poeta siciliano di quest’epoca, Santo Calì, anche in anni recenti la mia vita italiana, è stata riccamente piena di meravigliose amicizie con la scoperta di nuovi poeti come Ferruccio Brugnaro, che ho portato negli USA per delle letture, in occasione della pubblicazione della mia traduzione del suo Pugno di sole; Anna Lombardo di Marghera, alla quale ho appena tradotto No alibi; e tu, Franco Carlini, le cui poesie ho il piacere di tradurre e pubblicare negli U.S.

E la cultura ebraica?

Ebraica solo nel senso che ho studiato le idee e usato le immagini dalla bibbia del cabalismo ebraico, lo Zohar, per 45 anni. Ciò dipende dalle mie origini ebraiche, ma anche da una ribellione contro il sionismo. Non conosco però l’ebraico come lingua.

Che senso ha la tua attività di traduttore (se non sbaglio finora hai tradotto da ben sette lingue) e quali criteri usi nella scelta degli autori da tradurre?

Traduco per diversi motivi, ma principalmente per portare voci rivoluzionarie ai miei compagni americani. Ad esempio, una delle mie lingue è l’haitiano creolo, che ho imparato come parte della lotta per la libertà haitiana.

Ho imparato la lingua –  che è una delle più inventive al mondo – per tradurre poeti come Felix Morisseau, Leroy, Paul Larague, Gary Daniel e Josephat Large.

Di tutti quei poeti il prossimo anno Curbstone Editore pubblicherà le traduzioni mie e del mio cotraduttore Boadiba, e molto altro nella prima antologia della poesia lirica militante haitiana. Ma il punto è aiutare la lotta haitiana. Spero che il libro diventi un’arma culturale in questa lotta.

Per concludere: a quando una tua nuova venuta in Sardegna? Ne vale ancora la pena?

Il mio ritorno in Sardegna è veramente (come sempre) dipendente dai cicli di letture semplicemente perché, anche se mi piacerebbe un’altra vita, non ho mai viaggiato per relax o per “vacanza”.

Ho sempre viaggiato per tenere letture di poesia, ma le amicizie nate in conseguenza appartengono, francamente, al lavoro culturale che evidenzia le nostre disposizioni rivoluzionarie.

In questo senso, un viaggio in Sardegna, – l’isola nella quale è nato forse il più importante prigioniero che scrisse sulla cultura (allusione a Gramsci, N.d.R.) –, un viaggio in Sardegna è sempre coinvolgente.

(Intervista della fine del 1998, rilasciata in inglese, pubblicata dopo qualche mese nella Gazzetta del Medio Campidano).

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