L’assalto dell’esercito senz’armi

1 Settembre 2007

Manuela Scroccu

Le scorie umane della globalizzazione si ritrovano ad Annaba (l’antica Ippona). Molti sono algerini che lasciano il loro paese perché hanno la speranza di trovare condizioni di vita migliori. Per gli altri i porti dell’Algeria sono soltanto la tappa intermedia di un lungo viaggio attraverso il deserto, in marcia inarrestabile dai territori dell’Africa del Nord e subsahariana ormai devastati da sanguinose guerre e impoveriti dagli implacabili processi di globalizzazione. Qui, nella città che diede i natali a Sant’Agostino, vengono chiamati harraga, bruciatori di strade.
La fine del viaggio è Porto Pino, tra i bagnanti e i turisti, 125 miglia marine più su. I migranti tentano la traversata su improbabili gusci di noce verso la nuova porta sarda del paradiso ricco e opulento dell’Occidente: porta di servizio, a dire il vero, con la speranza di passare inosservati e raggiungere la Francia, attraverso la Corsica oppure le grandi città della penisola, Roma, Napoli o Milano, in salvo, finalmente, lontani dalla fame e dalla guerra. Arrivano a piccoli gruppi, con il favore del vento e delle correnti: ancora 100 solo qualche giorno fa.
Le immagini degli sbarchi in Sardegna si confondono, nei telegiornali e nella stampa nazionale, con quelle ben più familiari di Lampedusa. L’opinione pubblica ormai è abituata alle immagini di imbarcazioni fatiscenti colme di clandestini, accompagnata da sentimenti contrastanti che vanno dalla pietà alla paura dell’invasione, alimentata da chi grida “non li vogliamo”. Molte navi arrivano indisturbate e scaricano la merce. Altre vengono intercettate dalle autorità italiane. Di alcune si perdono le tracce e dopo un po’ il mare comincia a restituire qualche cadavere, come racconta Giovanni Maria Bellu nel suo bel libro “I fantasmi di Porto Palo”.
I protagonisti dell’assalto alle coste del Sulcis avanzano tremanti sulle passerelle delle imbarcazioni della Guardia di Finanza, sorretti da alcuni agenti. Qualche commentatore ha scritto sui quotidiani locali che questi, però, sono diversi, non sembrano abbastanza disperati, abbastanza emaciati, abbastanza spaventati. Non rispettano l’iconografia classica della “boat people”. Il sindaco di Sant’Anna Arresi, dopo l’ennesimo sbarco ferragostano, ha detto che alcuni ostentano addirittura un abbigliamento griffato, hanno i telefonini e chiamano mamma e papà rassicurandoli che “l’attraversata Annaba – Sulcis è andata a buon fine”. Come adolescenti che fanno tardi la sera in discoteca. Forse perché molti di loro adolescenti lo sono davvero, o poco più.
Alcuni sorridono alle telecamere mentre il cronista annuncia: “nuovo sbarco di clandestini”, “allarme sulle coste del Sulcis: ancora 100 clandestini portati in salvo dalla Guardia costiera”. Un ragazzo giovanissimo (16, 17 anni) grida alle telecamere “Jamais, Algerie (mai più Algeria)! Lavoro, Italia”. Sembra contento, forse perché è finalmente sulla terra ferma. Forse perché è vivo ed è sopravvissuto a una traversata assurda su barconi instabili e stracolmi. Forse perché, come spiega un finanziere a un giornalista, “arrivano con la speranza che qualcosa di buono possa succedere”, con l’incrollabile ottimismo di chi non ha nulla da perdere. Altri, invece, sembrano seguire mestamente l’agente di turno che li accompagnerà verso il posto di prima accoglienza. Sono quelli che sanno che il viaggio è finito. Sono quelli che sanno che, dopo la coperta e un piatto caldo, verranno trasferiti in una struttura d’emergenza e poi, probabilmente, portati nella penisola in un centro di detenzione temporanea in attesa di essere rimpatriati.
I sindaci del Sulcis sono volati a Roma per incontrare il responsabile del Ministero degli Interni con delega all’immigrazione, portando un unanime messaggio: non possiamo accoglierli. Insistono sulla difficoltà di governare lo sbarco di centinaia di giovani disperati in un territorio così depresso economicamente, che deve fare ancora i conti con i suoi, di giovani immigrati disperati, in fuga verso il continente più ricco. Altri, più prosaicamente, sono preoccupati dell’immagine della Sardegna turistica e della tranquillità del bravo bagnante. Il governo ha rassicurato tutti: nel Sulcis non verrà creato un nuovo centro di detenzione temporanea, come temevano gli amministratori. Inoltre verrà data applicazione all’accordo del 2001 tra Italia e Algeria che regola il rimpatrio degli immigrati (in vigore dall’ottobre 2006 e mai attuato). Il governo si è impegnato a farlo rispettare; pertanto, in caso di sbarchi, i clandestini saranno trasferiti a Elmas e da qui raggiungeranno in aereo la penisola dove verranno predisposti i piani di rimpatrio nel paese d’origine. I responsabili dell’ufficio immigrazione del Ministero degli Esteri hanno inoltre garantito che “verrà approntato un piano di intervento logistico che si tradurrà in un rafforzamento degli organici delle forze dell’ordine”.
Ancora una volta, invariabilmente, è la parola “emergenza” ad essere accostata alla parola immigrazione. Ancora una volta è la logica dell’immigrazione uguale problema di sicurezza a dominare le risposte di chi assicura che verrà “rafforzato l’organico delle forze di polizia”.
Ma questa stessa logica domina anche le domande: dei cittadini, che sempre più spaventati, vogliono un poliziotto per ogni immigrato; dei sindaci che dicono di sentirsi impotenti e soli di fronte a un fenomeno troppo grande e complesso. Se vogliamo risposte diverse da un esecutivo che si era impegnato in campagna elettorale a modificare una legislazione sull’immigrazione che si mostra sempre più inadeguata, se non dannosa, dobbiamo cominciare a fare domande diverse: chiediamo che finalmente l’immigrazione sia considerata come risorsa, non come pericolo; chiediamo politiche che promuovano la convivenza all’interno di una comunità solidale; chiediamo di rivedere le politiche economiche che affamano l’Africa e armano i signori della guerra. Siamo proprio in mezzo al mare, terra di confine tra chi possiede e chi vorrebbe possedere. Ora ce ne siamo accorti, quello che succede al di là del Golfo degli Angeli è anche affare nostro.
Qualcuno, nel frattempo, ha già fatto i conti, calcolando il costo complessivo delle operazioni di rimpatrio per ogni immigrato: 1000 euro. Il qualunquista di turno potrà così commentare: “Ah, se gli dessero ai nostri disoccupati questi soldi!”, con il sostegno e il conforto di dati certi alla mano.

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