La lotta contro le speculazioni deve essere politica

5 Luglio 2016
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Antonio Muscas

In centinaia il 2 luglio 2016 sin dalle 9 del mattino ci siamo riuniti sotto un sole cocente nei terreni agricoli tra Gonnosfanadiga e Guspini per manifestare contro l’ennesimo progetto di speculazione ambientale: diversi mega impianti termodinamici che in giro per la Sardegna interessano centinaia di ettari di terreno agricolo.

Da anni i comitati si battono contro le prevaricazioni di potenti multinazionali che hanno trovato in Sardegna terreno fertile grazie alla connivenza e alla collaborazione del governo Italiano, di quello Sardo e di una moltitudine di amministratori locali, i quali, sovente, con la banale scusa della legge “contro cui non ci possiamo opporre”, si fanno essi stessi promotori di progetti di speculazione e portavoce delle società d’assalto.

Da anni comitati e associazioni si battono contro le finte rinnovabili, dietro le quali si nascondono la speculazione, il consumo di territorio e la sua distruzione; mobilitano risorse umane ed economiche per contrastare i disastri che incombono sulla nostra terra, e spesso devono pure sopportare la presenza di individui ambigui, abili a sfruttare le azioni di protesta per proprio tornaconto mentre nel quotidiano rappresentano il sistema di interessi contro il quale ci si contrappone.

Anche alla manifestazione del 2 luglio, tra i tanti, hanno aderito associazioni, partiti politici, amministratori e sindaci che nella loro esistenza non si sono certo distinti per la coerenza e l’appoggio incondizionato alle lotte per la salvaguardia del territorio: c’era, per esempio, chi, da sindaco, pochi mesi fa ha dato il via libera ad ulteriore cementificazione nelle coste arburesi, o chi, da vicesindaco, collabora come tecnico per l’installazione di finti mini eolici agricoli finiti nel mirino della forestale e posti sotto sequestro. Un marasma dal quale è oggi difficile venire fuori. La ragione è che manca un’idea chiara per risolvere, una volta per tutte, l’ambiguità di fondo nascosta dietro i concetti di “rinnovabile” e “sostenibile”.

Fino ad oggi tante battaglie sono state vinte grazie alla preparazione di attivisti preparati e capaci di scovare gli innumerevoli errori commessi da mediocri progettisti sicuri di farla franca in un mondo di disattenti e conniventi, e grazie anche allo studio scrupoloso di leggi e normative, troppo spesso prese alla leggera da società, uffici tecnici e istituzioni pubbliche, quando esse stesse non esenti da contraddizioni e lacune. Si tratta però di un lavoro immane, utile a contrastare singoli progetti ma impossibile per arginare le miriadi di progetti fotocopia presentati da società ricche di capitali che prima o poi l’avranno vinta.

E il limite dell’azione troppo spesso è rappresentato proprio dai concetti di rinnovabile, sostenibile, legale, moderno e tecnologicamente all’avanguardia, attorno a cui ci si ritrova o ci si scontra. Quando allora un progetto è realmente rinnovabile e sostenibile? E che posizione si deve assumere quando pure soddisfi tutte le prerogative tecniche, tecnologiche, ambientali e legali? Quando è lecito e quando no?

Il dibattito purtroppo continua a racchiudersi entro ambiti che, anche se corretti, poco hanno a che fare con la natura e le caratteristiche dei territori e le esigenze delle comunità, in un quadro generale più ampio di reale necessità e utilità. Le domande a cui continuamente si sfugge e che invece sempre dovrebbero essere anteposte dinnanzi a una qualunque proposta o progetto sono: ne abbiamo realmente bisogno? ha senso? è utile? esistono altre opzioni valide?

A cosa può servire, infatti, l’ennesimo impianto di produzione di energia da fonti rinnovabili se non a garantire sostanziosi incentivi economici? giacché, a causa dell’eccesso di impianti rinnovabili e tradizionali, l’attuale produzione elettrica non è smaltibile e il governo regionale addirittura continua in maniera sconsiderata a investire su nuove centrali a carbone e inceneritori, per non parlare del progetto mai abbandonato di realizzazione di un gasdotto.

Hanno senso impianti i cui benefici vanno quasi esclusivamente a delle multinazionali estere? Ma, cosa più importante: hanno senso impianti di grande impatto la cui realizzazione non è stata concordata con le comunità locali e imposti a suon di leggi insensate, minacce e prevaricazioni? E anche, ove questi impianti fossero realmente a impatto zero e avessero ricadute positive sulla comunità, è lecito che una comunità possa decidere diversamente optando per soluzioni altrettanto vantaggiose o, al limite, per nessuna soluzione?

Se la legge favorisce progetti inutili e dannosi per l’ambiente e le comunità che li devono subire, è giusto che le comunità e gli amministratori si ribellino. E, senza limitarsi a trovare i cavilli all’interno di leggi sbagliate poste a ostacolo dei nostri diritti legittimi, bisogna lottare per la loro riforma. Ma anche ove esse fossero adeguate, è indispensabile chiedersi se i relativi progetti hanno un senso e sono di nostro interesse, se sono consoni col territorio e le comunità, in una logica di utilità, di rispetto altrui, del territorio e dell’ambiente. Non è sufficiente che siano verdi e sostenibili.

Il dibattito pertanto deve essere dirottato sul campo squisitamente politico, senza limitarlo – o talvolta sottraendolo – alle questioni tecniche e legali, che rappresentano il fertile campo in cui si nutrono speculatori e rappresentanti politici da strapazzo che, con l’arte della distrazione e dell’inganno, curano i propri interessi seminando miseria. È necessario e urgente che il diritto di decidere delle comunità e dei popoli non sia subalterno e dipendente dall’ambito giuridico e tecnico ma acquisti il ruolo di prim’ordine che gli compete. La battaglia perciò deve essere politica.

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