Obama, sogno progressista?

1 Aprile 2009

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Gianluca Scroccu

Il messaggio video che Obama ha inviato all’Iran in occasione del Nowruz, il nuovo anno persiano, ha rappresentato sicuramente un segnale importante. Certo, nessuno si illude che basti per scongelare un rapporto che da trent’anni rischia sempre di degenerarein un conflitto aperto. Non bisogna infatti credere che vi siano soltanto motivazioni di carattere generale in vista della costruzione di un mondo meno ad alta tensione. Obama, come ha ricordato una studiosa attenta come Farian Sabahi, è alle prese con la gravissima crisi economica e finanziaria ereditata dall’amministrazione Bush, e non può permettersi che continui l’approccio muscolare del passato. Basta teoria dell’Asse del Male, ma ricerca di nuove responsabilità comuni anche sulla base di considerazioni molto pragmatiche. Né, del resto, il presidente americano potrebbe pensare di gestire meglio la partita afgana e irakena senza un nuovo clima con Teheran. Lo stesso Iran, del resto, attraversa una grave recessione economica che ha visto l’impoverimento di una parte consistente della sua popolazione: un fattore che potrebbe condizionare le prossime presidenziali di giugno segnando la fine dell’epoca di Ahmadinejad. Il fatto che a 24 ore dal video-messaggio del presidente americano sia arrivata una risposta direttamente dalla guida spirituale iraniana Alì Khamenei rappresenta comunque un’indicazione interessante su come la leadership politico-religiosa sciita guardi alla prima apertura americana (cambiate e cambieremo, ha detto Khamanei, in quello che solo apparentemente è sembrata una chiusura, ma che lascia in sospeso una valutazione pragmatica in base alle convenienze per la nazione iraniana). Siamo di fronte ad un primo tentativo, che sarà evidentemente condizionato da altre questioni, come quella relativa al nucleare e ai rapporti con lo Stato d’Israele. Condizionamenti che non escludono un totale rovesciamento di prospettiva, compresa una ripresa di un’opzione militare, sicuramente disastrosa per gli equilibri mondiali. Sul piano della politica estera gli Stati Uniti di Obama evidenziano un evidente nuovo corso, anche se è ancora presto per valutarne in pieno i risultati: sicuramente, però, la chiusura di Guantanamo, un nuovo approccio sui temi del diritto internazionale e sulle grandi questioni dei diritti umani rappresentano ottimi segnali. Certo, l’altra grande questione riguarda il problema della crisi economica, sul quale il neo presidente americano non sembra mostrare altrettanto coraggio, almeno secondo quanto sostiene Paul Krugman, premio Nobel per l’Economia del 2008, che non perde occasione per criticare le scelte del Tesoro e del governo americano, tese a salvare il sistema finanziario con massicce iniezioni di dollari senza cambiarne le regole (in proposito si rimanda all’ottima analisi di Pino Cabras, I Racconti del terrore nella Crisi, pubblicata su www.megachip.info) Su questo versante, infatti, Obama appare più concreto rispetto al problema della costruzione di un nuovo modello ambientale globale. Vedi la richiesta di tenere un summit che discuta seriamente di ambiente e riduzione dei gas per arrivare entro il mese di dicembre, quando si terrà un vertice importante in Danimarca, ad un nuovo accordo che rappresenti un vero e proprio “Kyoto 2”. E’ un segnale importante in vista di quel “green new deal”, che inizi a partire da una svolta radicale nei trasporti e nell’utilizzo sempre più massiccio delle energie rinnovabili. In quest’ottica appare centrale il notevole cambio di strategia nei confronti dell’Europa: l’approccio muscolare e unilaterale di Bush sembra veramente evaporato a favore di un nuovo clima che favorisce interdipendenza e un approccio condiviso quantomeno delle scelte principali. Intendiamoci, il compito di Obama non è e non sarà semplice. Implicherà frenate e tempi molto lunghi, come dimostrano anche le sue dichiarazioni sull’Afghanistan. Né il presidente può accelerare nelle decisioni sia per evitare fratture nella sua squadra di governo, sia per contenere le voci critiche da parte repubblicana, che stanno già superando il livello di guardia scadendo nell’insulto gratuito verso il “commander in chief” e la stessa First Lady Michelle Obama, anche lei protagonista di un nuovo corso e di una presenza notevole (la vicenda dell’orto biologico alla Casa Bianca, l’aver servito in una mensa per i poveri ecc.). Il presidente americano sembra poi proporre, nonostante le evidenti difficoltà derivanti dalla disastrosa situazione economica, un nuovo corso che si nutre anche di un nuovo ciclo partecipativo da parte dei cittadini americani, come dimostrano le 100mila mail arrivate sul sito della Casa Bianca e le risposte di Obama. Un approccio che sembra evidenziare una capacità di ascolto e di condivisione, almeno nella fase della discussione, che rappresentano un unicum non soltanto per quanto riguarda gli States, ma anche la politica europea. Un nuovo modello da cui, prima o poi, dovrà prendere qualche spunto anche la derelitta politica italiana, ad iniziare dalla sinistra. O c’è ancora qualcuno che pensa che bastino un simbolo e un po’ di retorica su un passato oramai consegnato alla storia per riacquistare un rapporto serio con il proprio elettorato?

1 Commento a “Obama, sogno progressista?”

  1. Marcello Madau scrive:

    L’esperienza di Obama movimenta in maniera significativa la politica internazionale, e anche le nostre valutazioni. Però sarei prudente nel trarre ispirazione da questa ‘sinistra’ americana, non solo per la difficile, reciproca omologazione dei concetti di progresso e di conservazione. Nel momento in cui a sinistra emerge il problema della rappresentanza, è difficile condividere un modello USA dove essa (si vedano le primarie) è basata sul denaro e sui media, più che sul protagonismo attivo dei ceti subalterni. Non si può certo pensare ad un Obama anticapitalistico: speriamo almeno che non tardi a togliere l’infame embargo a Cuba, reiterata vendetta per lo smacco subito con la sconfitta di Batista e degli interessi americani.
    Apprezziamo i dinamismi innescati e le contraddizioni destinate ad aprirsi senza cadere in illusioni ricorrenti di una sinistra in crisi, che perde i nessi fra lavoro, produzione e liberazione nutrendosi di veltronismo (we can). Ed è bene non cadere né in irrigidimenti né in condanne simboliche, che rischiano di strutturarsi, più che sul rinnovamento, su giudizi storici superficiali, tradizioni litigiose e querelles elettorali. Sono certo che Gianluca ad esempio rispetti, più di quanto potrebbero far pensare le sue parole, un’esperienza come quella del Manifesto che si chiama, ancora, comunista.
    Io personalmente credo che la storia del comunismo sia storicamente appena iniziata, abbia registrato speranze e sconfitte, macerie e storie di liberazione. E che alla storia sembrano consegnate altre speranze e sconfitte, comprese quelle del modello capitalistico e delle cosiddette socialdemocrazie moderne.

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