La Palestina secondo Olga Solombrino e Amedeo Rossi

1 Agosto 2021

[Valentina Careddu]

Si è chiuso domenica sera nello scenario del chiostro del Lazzaretto di Cagliari “Palestina in Sardegna”, evento giunto alla V edizione, organizzato dall’Associazione Amicizia Sardegna Palestina e realizzato con il contributo del Comune di Cagliari.

Tre giorni di mostre e interviste di giovani artisti di Gaza, come Malak Mattar, pittrice ventenne dal tratto molto intenso, e Ahmed Masoud, autore e regista teatrale palestinese che attualmente vive in Gran Bretagna. Ma non solo Palestina: si è parlato di cultura araba attraverso la voce degli scrittori, musiche, film e romanzi, di territori occupati, di come la stampa italiana ed estera  racconta il conflitto tra Israele Palestina e di come i media digitali stanno creando una nuova memoria e nuova coscienza identitaria di un’intera comunità.

Proprio questi attualissimi temi sono stati al centro dell’incontro dell’ultima serata, domenica 18 luglio, ospiti la studiosa dell’Università di Napoli Olga Solombrino, autrice del libro “Arcipelago Palestina: territori e narrazioni digitali” (2018, Mimesis) e Amedeo Rossi, che ha pubblicato “Il muro della Hasbarà. Il giornalismo embedded de la Stampa in Palestina” (2017, Zambon editore). Un’analisi meticolosa e puntigliosamente documentata di come certa stampa italiana mainstream informi i suoi lettori al riguardo delle politiche del governo e dell’autorità militare israeliani nei confronti del popolo palestinese.

Olga, nel tuo libro parli del popolo palestinese come ”vittima della sua stessa mediatizzazione”: cosa intendi dire con questa affermazione? 
Guardando la narrazione televisiva della Palestina vediamo spesso immagini cristallizzate che riguardano i bombardamenti, foto di uomini armati, immagini sempre violente e aggressive che mettono in una posizione di vittima i palestinesi, bloccati in una polarizzazione tra insorgenti aggressivi e vittime passive. Mi pare che, in questo senso, l’apparato mediatico non ci aiuti a capire chi sono i palestinesi oggi, cosa vogliono, cosa cercano. Per questo sono andata a visitare il loro spazio digitale e la loro narrazione all’interno di questo spazio. Internet è una sfera importante di produzione culturale, di riscrittura dell’identità e della memoria, quindi è propriamente uno spazio in cui riescono a proporre una narrazione diversa da quella mediatica, per decostruire questa mediatizzazione di cui sono vittime.

A proposito della costruzione del sé, nel libro si parla di ubiquità e accessibilità dei media: come cambia la percezione della comunità grazie a queste due caratteristiche della rete 
I media digitali hanno queste caratteristiche intrinseche, insieme a quella della partecipazione diffusa. I palestinesi costituiscono una comunità che soffre di frammentarietà, una popolazione dislocata, un arcipelago che non riguarda solo la Cisgiordania, ma tutti i territorio dove vivono i Palestinesi oggi, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna,  ai territori della Palestina del ’48. La rete offre loro l’opportunità, proprio per le sue specificità, di ricucire una trama di una comunità lacerata attraverso l’uso dei media digitali. Edwar Said, uno dei più importanti intellettuali palestinesi, prestò molta attenzione a un progetto nato in Libano nel 1999 “Across the borders”, un progetto di un Internet point all’interno di un campo per restare in contatto con i familiari. Una forma di ricongiungimento virtuale laddove quello fisico era impossibile.

NakbaSurvivor.com (sito in cui si caricano video) e #MyNakbastory (hasthtag su instagram) sono alcuni degli esempi digitali che citi nel libro. Come i palestinesi riescono, grazie a questi strumenti, a ricostruire la memoria del loro passato? 
Nella questione palestinese il tema della memoria è particolarmente importante, al punto che anche  Mahmud Darwish scriveva che quella tra Israele e Palestina era una lotta tra due memorie. In particolare, fra la memoria dell’Olocausto ebraico e il trauma della catastrofe palestinese (la Nakba del 15 maggio 1948) che ai palestinesi non è concesso di commemorare. Quindi c’è una memoria imperativa di ricordare l’Olocausto, un dovere da portare avanti, mentre la memoria della storia palestinese è subalterna. La custodia della memoria, d’altronde, sono gli  archivi e quelli dei palestinesi negli anni sono stati distrutti, saccheggiati, eliminati durante la seconda Intifada. I siti internet di cui parlo nel libro sono luoghi che creano occasione per raccontare parte del proprio passato, condividendo l’esperienza del proprio esilio, della Nakba. I  video che vengono spesso caricati sul sito nakbasurvivor.com sono di giovanissimi autori che non hanno esperito sulla propria pelle l’esilio, ma che si fanno portatori di questa crisi per non soccombere alla memoria vivente, poiché fisiologicamente chi ha vissuto la Nakba non sopravviverà a se stesso. Ci sono quindi racconti di genitori, di nonni, un esperimento di storytelling che permette di costruire delle affiliazioni intorno a questa memoria. 

Amedeo hai intitolato il tuo libro: “Il muro della Hasbarà”. Innanzi tutto, che significa Hasbarà? 
Hasbarà è una parola in lingua ebraica che indica gli sforzi compiuti  per diffondere all’estero informazioni positive sullo Stato di Israele e le sue azioni. Il governo israeliano e i suoi sostenitori usano il termine per descrivere le politiche del governo e promuovere Israele di fronte all’opinione pubblica,  per contrastare qualsiasi tentativo di delegittimazione di Israele.

L’idea del libro nasce da uno studio sul quotidiano La Stampa di Torino. Il modo in cui viene trattata la questione palestinese è un’eccezione tutta italiana oppure no? 
Il libro nasce dalla constatazione che confrontando quanto pubblicato dalla stampa italiana, in particolare dal quotidiano La Stampa di Torino, con altra stampa internazionale e on line, emerge con chiarezza il modo con cui  sempre sono rappresentate certe narrazioni piuttosto che altre. Nel caso della Palestina questo è molto significativo perché è una lotta tra narrazioni dove una tende a negare l’esistenza dell’altra, in particolare quella di Israele cerca di far soccombere quella palestinese. In questa lotta, la stampa italiana è decisamente di parte. Il problema riguarda le scelte linguistiche, le narrazioni parziali, le sfumature lessicali che costruiscono un’immagine ben definita e parziale.  Nel mio libro cerco di analizzare e smontare questo tipo di narrazione: ciò che emerge è che questa linea editoriale e giornalistica è maggioritaria.

Quale è oggi lo stato dell’arte, cosa è cambiato rispetto a quando hai scritto il tuo libro, nella stampa italiana e nel modo di affrontare la questione del conflitto tra israeliani e palestinesi? 
Nel 2017, quando ho scritto il mio libro, il quotidiano torinese La Stampa aveva due giornalisti inviati in Palestina, di cui uno stava di sede a Ramallah (unico caso tra i quotidiani italiani). Ultimamente non c’è più nessun inviato della stampa italiana in quei territori, c’è solo un giornalista a Beirut  Quindi la tendenza oggi è quella di tacere sul tema: la politica dei media italiani è quella di non parlare più della questione palestinese o di parlarne il meno possibile.

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